venerdì 10 giugno 2011

Osservatore Romano - Intervista al Cardinale Montezemolo

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Dagli orrori di via Tasso
 alle Fosse ardeatine

Il padre del porporato fu una delle vittime della strage del 24 marzo 1944 e suo figlio scavò tra le macerie per ritrovare i corpi degli uccisi

Il 27 marzo ad accogliere e accompagnare Benedetto XVI nella visita alle Fosse ardeatine ci sarà anche il cardinale Andrea Cordero Lanza di Montezemolo. Suo padre, il colonnello Giuseppe, è tra le 335 vittime della strage compiuta dai tedeschi il 24 marzo 1944. Il diciannovenne Andrea fu tra i primi a scavare nella fragile pozzolana delle cave ardeatine, fatte esplodere dai tedeschi in fuga per nascondere l’eccidio, contribuendo a ritrovare i corpi delle persone uccise e partecipando in prima persona alla triste operazione del riconoscimento. Nell’intervista al nostro giornale, il cardinale apre il diario dei suoi ricordi più intimi, rivivendo quei giorni cruciali nella storia d’Italia.Il colonnello Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo Lo fa con parole di perdono cristiano per gli autori della strage e con «un messaggio di speranza perché non si ripetano mai più crimini così efferati».
Qual è stato il suo primo pensiero appena saputo che il Papa avrebbe visitato le Fosse ardeatine dove suo padre è stato ucciso ed è sepolto?
Ho provato stupore, commozione, gratitudine. Stupore perché, confesso, non me l’aspettavo. Commozione perché le Fosse ardeatine sono una pagina importante della mia storia personale e anche dell’Italia intera. Stupore e commozione diventano gratitudine al Papa per aver deciso di compiere la visita. È un grande gesto. E, in fondo, è una prima volta anche per me. Mi trovavo infatti all’estero, impegnato nel servizio diplomatico della Santa Sede, quando i Pontefici Paolo VI nel 1965 e Giovanni Paolo II nel 1982 andarono alle Fosse ardeatine.
Quando suo padre venne ucciso lei aveva diciannove anni. Quali sono i suoi ricordi più vivi?
Rivivo spesso, momento per momento, quei giorni. Come fosse ora. La mia famiglia, dopo l’8 settembre 1943, è stata costretta a entrare in clandestinità. Una vita complicata, sempre con il fiato sospeso. Tra paure, trepidazione, dolore non abbiamo mai perso la speranza di vivere in un tempo migliore, senza guerre.
In clandestinità per via del ruolo di primo piano che aveva suo padre?
I tedeschi conoscevano bene mio padre. Era stato al comando supremo delle forze militari italiane e poi al fronte. Le vicende seguite al 25 luglio 1943 hanno stravolto tutto. Il generale Pietro Badoglio, nuovo capo del governo, lo ha chiamato come capo della sua segreteria particolare. L’8 settembre ecco un nuovo stravolgimento. Il generale Giorgio Calvi di Bergolo ha costituito il comando della città aperta di Roma affidandogli il settore dell’amministrazione. Ha fatto parte della delegazione che ha trattato con i tedeschi il cessate il fuoco. Pochi giorni dopo, però, i tedeschi hanno fatto prigioniere tutte le autorità. Calvi ha chiesto a mio padre di accompagnarlo in Germania, ma lui ha preferito restare a Roma, entrando in clandestinità per continuare a dare un contributo alla liberazione dell’Italia.
Da quel momento, nel settembre 1943, siete tutti entrati in clandestinità.
Sì. Mio padre ha fondato il fronte militare clandestino. Era il rappresentante del comando supremo del sud per l’Italia occupata. Un lavoro non facile, tutto alla macchia. A noi familiari ha subito chiesto di stare attenti a ogni passo. Poi è venuto il momento di scappare dal nostro appartamento di via Vico, non lontano da piazzale Flaminio. Ci ha nascosti in vari posti di Roma. Mia madre e le mie tre sorelle al collegio di Trinità dei Monti. Mio fratello maggiore e io cambiavamo spesso nascondiglio per non farci catturare. Ho vissuto a lungo nel Pontificio Collegio Ucraino al Gianicolo.
Il 25 gennaio 1944 suo padre è stato arrestato e rinchiuso nella famigerata prigione di via Tasso.
L’arresto è avvenuto in circostanze mai chiarite. Aveva documenti falsi ma il suo volto era ben noto per i ruoli di primo piano che aveva ricoperto. Nel tempo aveva assunto l’identità dell’ingegner Giacomo Cataratto e del professor Giuseppe Martini. Anche in carcere abbiamo cercato di seguirlo da vicino, restando però sempre nascosti. Ci aveva mandato a dire più volte di non farci prendere perché ci avrebbero usato come ostaggi contro di lui. Siamo riusciti a comunicare con qualche biglietto nascosto nel cambio della biancheria che gli portava un’anziana donna. Mia madre cuciva i messaggi nei colletti delle camicie.
L’attentato di via Rasella, il 23 marzo 1944, ha fatto precipitare la situazione mandando in fumo progetti e trattative per liberarlo.
I tedeschi hanno messo in atto, in ventiquattr’ore, la rappresaglia immediata dopo il disgraziato eccidio di via Rasella dove persero la vita trentatré tedeschi. In poche ore hanno prelevato prigionieri da via Tasso e da Regina Coeli e molti ebrei. Il resto è storia.
Suo padre, nel ruolo di comandante militare clandestino, aveva chiesto espressamente di evitare attentati come quello di via Rasella, soprattutto nelle grandi città. Le rappresaglie, aveva spiegato, si sarebbero abbattute anche sui civili...
Il suo ordine scritto era precisamente questo: «Nelle grandi città la gravità delle conseguenti rappresaglie impedisce di condurre molto attivamente la guerriglia». Tra le sue priorità c’era la protezione dei civili. Era certo che attentati contro i tedeschi a Roma avrebbero procurato morti inutili nelle rappresaglie. Ed è noto che su quell’azione ci siano diverse valutazioni dovute alle prospettive con cui è stata affrontata la resistenza.
La notizia certa della morte di suo padre alle Fosse ardeatine l’ha avuta solamente al momento del ritrovamento del corpo nel luglio 1944.
Sì, anche se tutto faceva pensare che fosse stato ucciso proprio alle Fosse ardeatine. Il 24 marzo 1944 il cambio della biancheria venne rifiutato a via Tasso con una frase secca: «Il colonnello Montezemolo è morto». I particolari della strage vennero fuori solo in un secondo momento. Girano voci incerte e confuse. L’esatta dimensione della tragedia non venne percepita subito, anche perché i tedeschi erano ancora a Roma. In quei giorni di guerra le comunicazioni erano quelle che erano.
Lei fu tra i primi a scavare tra le macerie causate dalle mine fatte esplodere dai tedeschi per nascondere i corpi delle vittime.
Ho vissuto molto da vicino, per tutta l’estate del 1944, la parte del ritrovamento e del riconoscimento delle vittime. È stata un’operazione laboriosa che ha visto una partecipazione eccezionale. È vero, i tedeschi avevano fatto esplodere due mine per chiudere l’ingresso delle cave e nascondere il luogo della strage. Scavando e facendo un lungo giro siamo finalmente potuti arrivare al luogo dell’eccidio. Tirare fuori i corpi non è stata un’operazione facile. Sia dal punto di vista tecnico che umano. Vedendo tutti quei corpi ammassati ho provato un senso di orrore e di pietà oltre ogni immaginazione che, dopo tutti questi anni, è rimasto in me.
Come avete proceduto al riconoscimento dei corpi?
L’opera molto attenta, delicata, capace, è stata condotta dal medico legale Attilio Ascarelli, ebreo. È riuscito a identificare quasi tutte le 335 vittime, nonostante lo stato di corruzione fosse avanzato. Sono andato tutti i giorni a seguire da vicino il lavoro, dando il mio contributo. A ogni famiglia che temeva di avere un congiunto tra le vittime è stato chiesto di riempire un formulario per fornire tutti gli elementi utili per l’identificazione. Per quanto riguarda mio padre, sapevo da mia madre che indossava una camicia con le iniziali cucite sul petto. Poi ho riconosciuto l’anello nuziale.
Un particolare del monumento alle vittime delle Fosse ardeatineCome ricorda suo padre?
Il suo profilo è delineato nell’ultimo biglietto che è riuscito a farci arrivare dalla cella di via Tasso. Ha scritto alla moglie parole tenerissime: «Non sapevo di amarla tanto e rimpiango solo lei e i figli». E poi: «Confido in Dio. Però occorre aiutarsi. Io non posso che resistere e durare. Lo farò per quanto umanamente possibile».
Quando è stato ucciso aveva quarantatré anni.
Sì, era nato nel 1901. Fatta la prima guerra mondiale come volontario negli alpini era divenuto ingegnere civile e poi aveva intrapreso con successo la carriera militare. Di lui ho ben presente idealità e signorilità. Era un uomo che si imponeva per equilibrio, valori, saggezza, vissuti con una certa rigidità mista ad affabilità. Ricordo che aveva il cruccio di stare poco in famiglia ma quegli anni così difficili, fatti di tensioni politiche e di guerre, lo avevano portato spesso lontano da casa. Noi cinque figli lo vedevamo soprattutto all’ora dei pasti. Si preoccupava molto per i nostri studi.
È anche per proseguire il servizio di suo padre che lei è andato volontario nella guerra di liberazione?
Ho creduto giusto dare il mio contributo al bene della patria. Sono stato, per pochi mesi in verità, con un raggruppamento militare del genio che aveva preso proprio il nome di mio padre. Intanto mi ero iscritto alla facoltà di architettura e, finita la guerra, mi sono laureato e ho svolto questa professione per dieci anni, fino a quando mi ha sorpreso quella realtà misteriosa che è la vocazione al sacerdozio. Tornando alle motivazioni della mia esperienza come volontario nella guerra di liberazione, prima di fare l’architetto e il sacerdote volevo intraprendere la carriera militare che nella mia famiglia era l’opzione quasi obbligata e indiscussa. Mio fratello nel 1942 era entrato nell’accademia e diventato ufficiale. L’anno dopo avrebbe dovuto essere il mio turno. Già, avrei dovuto presentarmi a Modena e fare la visita medica per l’ammissione all’accademia militare proprio la mattina dell’8 settembre 1943. Ricordo che mio padre, nei giorni precedenti, mi disse di non muovermi da Roma per nessuna ragione. Non capivo la sua raccomandazione così ferma. Mi arrabbiai, obiettando che così mi avrebbe fatto perdere un anno di tempo. Lui fu irremovibile. Poi ho capito perché. Avevo diciannove anni, un’età che forse ancora non dà la capacità di valutare in pieno la realtà.
Lei ha collaborato anche con Pierluigi Nervi, come valuta il monumento che custodisce le tombe delle vittime e ricorda la strage?
È un’opera realizzata con abilità che ha saputo mantenere il giusto equilibrio, dando un senso di spiritualità. Subito dopo la fine della guerra il comune di Roma ha bandito un concorso per la sistemazione delle cave ardeatine e la costruzione del monumento. Il primo concorso d’architettura nell’Italia liberata. Purtroppo ero troppo giovane per partecipare, non ero neppure laureato. Ai vincitori venne assegnato l’incarico di un progetto comune per la costruzione del cosiddetto sacrario, la sistemazione del piazzale e il consolidamento delle gallerie fatte esplodere dai nazisti dopo l’eccidio. Il monumento è stato inaugurato il 24 marzo 1949.
Come trova la sistemazione delle tombe, allineate l’una accanto all’altra, sotto una grande lastra di cemento che le rende quasi un’unica sepoltura?
È una sistemazione ottimale perché dà un effetto di fratellanza, senza cadere nella retorica. L’idea di base, molto semplice ma eloquente, è una pietra tombale unica, priva di enfasi celebrativa, solenne, silenziosa ed espressiva. La grande lapide rende al meglio valore e significato del fatto e del posto. Riguardo alle gallerie di accesso, va ricordato che sono di pozzolana fragile e non di tufo compatto come le vicinissime catacombe. Dunque sono cave molto precarie e la sistemazione ha tenuto conto dei rischi di crollo.
Un monumento che mette tutti d’accordo: ebrei e cristiani, credenti e non credenti.
Alle Fosse ardeatine si respira un senso di fratellanza nella morte. Non è mai venuto meno il rispetto reciproco né hanno trovato spazio rivendicazioni o contrasti religiosi. Le rievocazioni sono state organizzate senza problemi, in piena solidarietà e collaborazione. Davvero la morte ha accomunato persone diverse tra loro rendendole, per sempre, come fratelli. Ricordo che già al riconoscimento delle vittime erano presenti un sacerdote e un rabbino per la benedizione.
Veniamo alla figura di Pio XII. Qual è la sua valutazione sulle polemiche che lo hanno investito? Cosa si pensava del Papa negli anni che lei ha vissuto a Roma in clandestinità?
Non c’è dubbio che sia stata messa in atto un’enorme speculazione. Così come non c’è nessun dubbio che l’opera di Pio XII sia stata, al di sopra di ogni sospetto, dalla parte di tutti i perseguitati. Trovo giusto lasciare la parola agli storici. Mi pare, comunque, che gli studi più seri e approfonditi confermino ciò che i testimoni diretti sanno da sempre.
Quali sentimenti nutre verso gli autori della strage? C’è un perdono possibile?
In una visione cristiana non c’è che il perdono. Un atteggiamento che non porta a dimenticare o giustificare. La giustizia deve fare il suo corso, è evidente. Umanamente però è inutile continuare a perseguire chi si è macchiato di crimini così gravi. Per il cristiano il perdono è un atto di amore che non chiede nulla in cambio.
Ha mai contattato Erich Priebke, principale collaboratore di Herbert Kappler nella strage, e che ora, a novantotto anni, vive a Roma agli arresti domiciliari?
Personalmente no. Le Fosse ardeatine ci hanno fatto prendere strade molto diverse. Una delle mie sorelle ha scambiato lettere con Priebke. Gli ha fatto sapere che la morte di nostro padre resterà sempre una ferita. In realtà è un’amputazione. La ferita si rimargina, l’amputazione resta. Come famiglia consideriamo del tutto inutile infierire su quanti hanno ucciso nostro padre. Abbiamo scelto il perdono e non la vendetta.
Trova un collegamento con la visita di Benedetto XVI nel 2006 ad Auschwitz?
Alle Fosse ardeatine il Papa farà una visita privata che non vuole dare nessun richiamo speciale se non ai valori fondamentali dell’amore cristiano che supera ogni nazionalità. È un atto di omaggio, di fronte alla storia, a persone che non vanno dimenticate. Un abbraccio nella preghiera alle vittime di tutte le guerre. La sua presenza sarà un nuovo conforto per i familiari delle vittime e la conferma che quel sacrificio non è stato inutile. È il gesto di un padre.
Ad accogliere il Papa ci saranno i familiari delle vittime. Quali sono i rapporti tra voi?
Ricordo i giorni del riconoscimento dei corpi. Vedevo il dolore sui volti di genitori, mogli, figli, fratelli, sorelle, amici... Eppure c’era un clima di grande fratellanza, di solidarietà. Nessuno faceva distinzioni religiose o politiche. Col tempo ci si è persi di vista. Non ho mantenuto rapporti personali. Oggi, poi, i familiari diretti ancora vivi sono davvero pochi. Devo dire che, dopo aver lasciato il servizio diplomatico, ho avuto la possibilità di essere più presente alle cerimonie. In queste occasioni ho incontrato il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, sempre molto attento, puntuale, rispettoso nel mettere in evidenza i valori che le Fosse ardeatine esprimono ancora oggi.
Com’è stata la commemorazione di giovedì scorso?
Ho visto il presidente Napolitano particolarmente commosso. È stata una buona idea far partecipare all’incontro numerose scolaresche, venute da diverse parti d’Italia. Sono commemorazioni semplici ed eloquenti. Vengono letti, a uno a uno, i nomi delle vittime. Si recitano preghiere cristiane ed ebraiche. Non ci sono speculazioni partitiche.
Cosa rappresentano le Fosse ardeatine, anche nella prospettiva delle celebrazioni per i 150 anni dell’unità d’Italia?
Il valore della memoria consiste nell’imparare l’essenziale dalle generazioni che ci hanno preceduto: fare nostro ciò che ci insegna la storia e stare attenti a non ripetere gli errori del passato. Purtroppo nelle guerre di fatti simili ce ne sono stati. Tanti. Persino con un numero maggiore di vittime. Ognuno di questo crimini è una pagina di storia che parla, particolarmente alle nuove generazioni.
Il biglietto con cui le autorità tedesche comunicarono la morte del colonnello alla famiglia MontezemoloNella vicenda di suo padre, e non solo, collegata alle Fosse ardeatine c’è la prigione di via Tasso. Cosa significa per un figlio visitare il luogo dove il padre è stato detenuto e crudelmente torturato?
A via Tasso ho rivissuto, interiormente, la prigionia di mio padre e i suoi ultimi cinquantotto giorni di vita passati in detenzione. Ho avvertito la consapevolezza che se il Signore ha permesso una tragedia così inumana, saprà tirarne fuori beni maggiori. Per me, lo confesso, è stata un’esperienza dura visitare i locali dell’edificio che, nei nove mesi dell’occupazione nazista di Roma, venne utilizzato come carcere dal comando della polizia di sicurezza. Le celle di detenzione sono ancora come furono lasciate dai tedeschi in fuga. Una visita che mi ha reso ancor più convinto che fare memoria delle vittime significa anche fare in modo che non si ripetano più simili crudeltà.
C’è una significativa coincidenza di date che la riguarda. Nel 2006, proprio il 24 marzo, esattamente sessantadue anni dopo la strage, lei è stato creato e pubblicato cardinale da Benedetto XVI. Cosa ha provato quel giorno a San Pietro?
Per me è un collegamento impressionante. Dal 1945, ogni 24 marzo con i miei familiari andiamo alle Fosse ardeatine per pregare. Siamo in tanti: ho un fratello, tre sorelle, sedici nipoti, venti pronipoti e due pro-pronipoti. Anche nel 2006 avevamo già fatto il nostro programma quando è arrivata la nomina cardinalizia. A San Pietro, vestito di porpora, il colore del sangue che rammenta il martirio, ho portato con me anche il ricordo del sacrificio di mio padre. È un altro motivo di gratitudine a Benedetto XVI.
  giampaolo mattei
27 marzo 2011

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