lunedì 31 dicembre 2012

Odio il capodanno di Antonio Gramsci


Odio il capodanno


di Antonio Gramsci
«Ogni mattino, quando mi risveglio ancora sotto la cappa del cielo, sento che per me è capodanno. 
Perciò odio questi capodanni a scadenza fissa che fanno della vita e dello spirito umano un’azienda commerciale col suo bravo consuntivo, e il suo bilancio e il preventivo per la nuova gestione. Essi fanno perdere il senso della continuità della vita e dello spirito. Si finisce per credere sul serio che tra anno e anno ci sia una soluzione di continuità e che incominci una novella istoria, e si fanno propositi e ci si pente degli spropositi, ecc. ecc. È un torto in genere delle date. 
Dicono che la cronologia è l’ossatura della storia; e si può ammettere. Ma bisogna anche ammettere che ci sono quattro o cinque date fondamentali, che ogni persona per bene conserva conficcate nel cervello, che hanno giocato dei brutti tiri alla storia. Sono anch’essi capodanni. Il capodanno della storia romana, o del Medioevo, o dell’età moderna. E sono diventati cosí invadenti e cosí fossilizzanti che ci sorprendiamo noi stessi a pensare talvolta che la vita in Italia sia incominciata nel 752, e che il 1490 0 il 1492 siano come montagne che l’umanità ha valicato di colpo ritrovandosi in un nuovo mondo, entrando in una nuova vita. Cosí la data diventa un ingombro, un parapetto che impedisce di vedere che la storia continua a svolgersi con la stessa linea fondamentale immutata, senza bruschi arresti, come quando al cinematografo si strappa la film e si ha un intervallo di luce abbarbagliante. 
Perciò odio il capodanno. Voglio che ogni mattino sia per me un capodanno. Ogni giorno voglio fare i conti con me stesso, e rinnovarmi ogni giorno. Nessun giorno preventivato per il riposo. Le soste me le scelgo da me, quando mi sento ubriaco di vita intensa e voglio fare un tuffo nell’animalità per ritrarne nuovo vigore. Nessun travettismo spirituale. Ogni ora della mia vita vorrei fosse nuova, pur riallacciandosi a quelle trascorse. Nessun giorno di tripudio a rime obbligate collettive, da spartire con tutti gli estranei che non mi interessano. Perché hanno tripudiato i nonni dei nostri nonni ecc., dovremmo anche noi sentire il bisogno del tripudio. Tutto ciò stomaca.”
Antonio Gramsci, 1° Gennaio 1916, l’Avanti!


Tratto da: Odio il capodanno | Informare per Resistere http://www.informarexresistere.fr/2012/12/31/odio-il-capodanno-2/#ixzz2GclFcRc7
- Nel tempo dell'inganno universale, dire la verità è un atto rivoluzionario! 

mercoledì 12 dicembre 2012

Quando i razzisti salirono in cattedra....Di Mario Avagliano


Quando i razzisti salirono in cattedra.... in Germania e in Italia

di Mario Avagliano

Erano belli, brillanti, intelligenti e colti. Furono responsabili della morte di milioni di ebrei. Il nazismo in Germania non fu solo un movimento guidato da folli in preda a deliri di onnipotenza. Hitler si avvalse di una poderosa macchina burocratica e di propaganda che, per funzionare, aveva bisogno di uomini preparati. Giuristi, dottorandi in economia o in storia, giovani laureati costituirono un’élite di intellettuali che svolse un ruolo fondamentale sia dal punto di vista teorico e organizzativo, sia come apparato di esercizio quotidiano del potere.
Ma che cosa spinse questi uomini a mettersi al servizio del nazismo? Un poderoso saggio di una storica francese, Christian Ingrao, intitolato «Credere, distruggere. Gli intellettuali delle SS» (Einaudi, pp. 405, euro 34), cerca di dare una risposta a questo interrogativo, seguendo i percorsi biografici e culturali di ottanta di loro.

Secondo la tesi della Ingrao, che ha fatto già discutere in  Francia e in Germania, grosse colpe sono addebitabili alla cultura bellica e alle vicende della Grande Guerra, che ebbero particolare influenza sui bambini tedeschi di allora, tanto più quelli provenienti dalle aree di confine, che subirono occupazione ed espropri da parte delle Nazioni vincitrici del conflitto. Werner Best, ad esempio, a undici anni durante la guerra perse il padre, il quale gli lasciò una lettera in cui esortava lui e il fratello «a diventare uomini, tedeschi e patrioti».  
Gli studenti tedeschi degli anni 1918-1924, futuri intellettuali delle SS, espressero con la massima chiarezza questa angoscia escatologica e costituirono il grosso delle truppe delle varie formazioni paramilitari sorte in quel periodo. La loro militanza proseguiva la lotta contro il trattato di Versailles, che aveva umiliato i tedeschi, per la salvaguardia della nazione assediata da  un «mondo di nemici», esterni ed interni, ed ebbe come valvola di sfogo finale l’adesione in massa al movimento nazista.
Il partito di Hitler, col suo progetto di rifondazione della germanità e di affermazione della superiorità della razza nordico-ariana, riuscì ad intercettare il loro consenso, rappresentando il transfert di una rivincita anche ideale di una generazione, il sogno di un invincibile Grande Reich millenario.
La storia divenne così la ragione legittimatrice di una «scienza combattente», di un corpo elitario di intellettuali che, rileva Christian Ingrao, mobilitò a partire dal 1939 il razzismo e l’antiebraismo nella giustificazione della guerra e nella produzione dell’immagine del nemico e in molti suoi elementi non ebbe il timore di sporcarsi le mani nel genocidio degli ebrei, partecipando in prima persona agli eccidi di massa, prima nell’Est europeo e poi anche nel Reich.
La maggior parte degli intellettuali SS sopravvisse all’apocalisse  del 1945, subendo molto spesso duri processi, in qualche caso il patibolo e di frequente il carcere.
La parabola degli intellettuali italiani dell’epoca presenta alcuni punti in comune e parecchie divergenze con i loro coetanei d’oltralpe. Anche il consenso degli intellettuali italiani al fascismo trovò, almeno in parte, le sue radici nella prima guerra mondiale, nella delusione conseguente alla cosiddetta vittoria mutilata e nelle ambizioni di costruire un’Italia nuova e potente, erede della Roma imperiale, protagonista in Europa e nel Mediterraneo. Il partito fascista di Benito Mussolini, tuttavia, all’inizio non fu antisemita, anzi molti ebrei militarono nelle sue fila, anche con incarichi di rilievo. La svolta razzista e antiebraica, che negli anni Venti coinvolgeva solo una minoranza di uomini di cultura, prese corpo a seguito della conquista dell’Etiopia.
Giornalisti, artisti e scrittori parteciparono attivamente all’intensa campagna di propaganda antisemita orchestrata dal regime tra il 1937 e il 1938 e dopo l’emanazione delle leggi razziali, avvenuta nell’autunno del 1938, per oltre sei anni intellettuali, docenti universitari, magistrati, avvocati e funzionari di basso e di alto livello prestarono la propria opera al servizio della persecuzione. Un bel libro appena uscito, «Baroni di razza» di Barbara Raggi (Editori Riuniti, pp. 216, euro 22,90), spiega, come recita il sottotitolo, «come l’Università del dopoguerra ha riabilitato gli esecutori delle leggi razziali». Rimasero tutti (o quasi) al loro posto, perfino Nicola Pende, firmatario del famigerato Manifesto della Razza. L’epurazione annunciata dal nuovo Stato democratico non ci fu e l’apparato burocratico, culturale, amministrativo del fascismo “subentrò” a se stesso, in una sostanziale continuità.
I baroni del potere culturale, scientifico, professionale e universitario, che avevano fatto il bello e il cattivo tempo durante il Ventennio mussoliniano, scansarono le dure sentenze della Storia, transitando senza colpo ferire nella Repubblica. Così Gaetano Azzariti, che era stato presidente del Tribunale della Razza, divenne nel 1957 presidente della Corte Costituzionale. E a questo gioco, rivela lo studio di Barbara Raggi, si prestarono anche figure luminose dell’antifascismo, come Guido Calogero, che scrisse una lettera già nel 1944 per difendere Antonio Pagliaro, insigne linguista e glottologo, che aveva fatto parte del Consiglio superiore della demografia e della razza. Grazie a Calogero anche Pagliaro venne degnamente riabilitato nel 1946 e concluse la sua carriera col rango di professore emerito. Segno di un processo di defascistizzazione dell’Italia che fu largamente incompiuto, falsato, come scrive Pasquale Chessa nell’introduzione, dal peccato originale di «un algoritmo del perdono morale etico e politico”.

(Il Mattino, 9 dicembre 2012)



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giovedì 22 novembre 2012

E DIRE CHE 60 ANNI FA TUTTO COMINCIO' COSI'....ANCHE SENZA FB


Storie – Facebook e I Giovani Fascisti Italiani

di Mario Avagliano

«Gruppo per soli FASCISTI, chi non condivide gli ideali del Fascismo non è benvenuto. Per la rinascita dell'Italia! FASCISMO VUOL DIRE: ORDINE, RIGORE, POTENZA, UNIONE, LEGALITA', GIUSTIZIA, AZIONE, RINNOVAMENTO, PATRIA, LIBERTA', AMORE, FAMIGLIA, LAVORO». Non è uno scherzo. È la scheda di presentazione di un gruppo “regolarmente” costituito sul social network Facebook, denominato I Giovani Fascisti Italiani.
Un gruppo che ha già raccolto oltre 34 mila «mi piace». E che vomita slogan tipo questo: «Meglio avere un dittatore che mi dia da mangiare che una democrazia che mi fa morir di fame… Meglio avere un dittatore che pensi all’Italia, che una democrazia che la distrugge. Meglio avere un dittatore che ama il popolo italiano, che una democrazia che ama le banche, i massoni e gli extracomunitari e non».
E non è la sola pagina di questo tenore esistente su Facebook. In rete con I Giovani Fascisti Italiani ci sono gruppi o pagine come Cuore nero anima tricolore, con lo slogan «Il Duce ha sempre ragione», Benito Mussolini eterna passioneItalia fascista-Fasci littori di combattimento(che “simpaticamente” definisce Roberto Saviano «filoisraeliano» e «ebreo di merda»), Fuori tutti gli immigrati dall’ItaliaBenito Mussolini duce d’Italia (che apostrofa il presidente della Repubblica Napolitano con «un bavoso pezzo di merda»), Repubblica Fascista d’ItaliaDio Patria e Famiglia(dove, in riferimento a quanto avviene in queste ore in Israele e a Gaza, si leggono commenti del tipo «MALEDETTO ISRAELE!!!!!! portano solo guai, sti giudei!!») e via dicendo.
L’elenco è lunghissimo e comprende anche CasaPound Italia e Blocco Studentesco, che ormai raccoglie migliaia di studenti in moltissime città italiane e il 24 novembre ha indetto una manifestazione nazionale a Roma contro il governo, organizzata con CasaPound Italia.
Sono tutti gruppi o pagine con decine e decine di migliaia di iscritti o di «mi piace», dotati anche di giornali on line e di web-radio (come radiobandieranera.org). Una galassia nera da far spavento. E che, giorno dopo giorno, cresce nelle scuole, sulla rete, nella società. 

(L'Unione Informa, 20 novembre 2012)


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domenica 21 ottobre 2012

Stori@ - il blog di Mario Avagliano: Da Girolimoni alle Ardeatine, in mostra le carte c...

Stori@ - il blog di Mario Avagliano: Da Girolimoni alle Ardeatine, in mostra le carte c...: di Mario Avagliano Le ultime ore dell’occupazione tedesca di Roma sono concitate. Il 3 giugno 1944 le SS sgombrano in fretta e furia dal...

Da Girolimoni alle Ardeatine, in mostra le carte che Kappler non bruciò

di Mario Avagliano

Le ultime ore dell’occupazione tedesca di Roma sono concitate. Il 3 giugno 1944 le SS sgombrano in fretta e furia dal carcere di via Tasso. Il tenente colonnello Herbert Kappler ordina di bruciare gran parte dei documenti e di caricare alcuni autocarri di armi e casse di materiali, destinandone quattro ai prigionieri che li dovranno seguire. All’ultimo momento, a causa di un guasto ad uno dei camion, alcuni prigionieri vengono lasciati in cella.Sarà la loro salvezza. Poco dopo la partenza dei tedeschi, lo stabile è preso d’assalto dalla folla, che libera i reclusi e saccheggia gli uffici. L’indomani Roma è la prima capitale europea a essere liberata, dopo 271 giorni di occupazione. La notizia fa il giro del mondo. Mussolini, amareggiato, ordina tre giorni di lutto nel territorio della Repubblica Sociale.
Una eccezionale fotografia di quei momenti, che ritrae i roghi appiccati dai tedeschi alle carte di via Tasso, è stata ritrovata nell’archivio del questore di polizia Giuseppe Dosi, di recente acquisito dal Museo della Liberazione di Roma. Dosi, che nel dopoguerra sarebbe diventato direttore dell’ufficio italiano Interpol, proprio la mattina del 4 giugno recuperò nel carcere delle SS e nel reparto tedesco di Regina Coeli (il tristemente famoso terzo braccio) la documentazione scampata alla distruzione perpetrata dai nazisti e ai saccheggi della popolazione.


L’archivio di Dosi è stato presentato ieri, insieme ad altri documenti inediti, dal presidente del Museo, Antonio Parisella, e da Alessia Glielmi, responsabile degli archivi. Una vera e propria miniera, contenente dossier tutti da studiare sul caso di Gino Girolimoni, accusato ingiustamente nel 1927 di essere il mostro di Roma, e su «il Volo dell’Arcangelo», la misteriosa caduta da una finestra del Vittoriale di Gabriele d’Annunzio nel 1922, alla vigilia della marcia su Roma, ma anche sui collaborazionisti dei nazisti e sugli inizi dell’Interpol italiana.
Negli ultimi anni, nonostante le ristrettezze finanziarie e la pesante sforbiciata ai fondi, il Museo ha svolto un’intensa attività di ricerca che ha portato all’acquisizione di un cospicuo patrimonio documentario. Una delle scoperte più importanti, compiuta da Glielmi, è stata l’individuazione delle carte che componevano in origine gli elenchi di nominativi utilizzati dagli agenti tedeschi incaricati di prelevare a Regina Coeli i detenuti e di predisporre il trasporto verso la via Ardeatina il 24 marzo 1944. Gli elenchi ricomposti sono tre, due relativi agli ebrei (Judenliste) e uno agli altri detenuti.
Di notevole interesse sono anche le toccanti lettere da via Tasso del generale dell’Aeronautica Sabato Martelli Castaldi, originario di Cava de’ Tirreni, membro del Fronte militare clandestino dell’eroico Giuseppe Montezemolo, che entrò nella Resistenza col nome di battaglia di Tevere, l’8 settembre 1943 combatté a Porta San Paolo e, fra le altre cose, fornì l’esplosivo per l’azione del dicembre 1943 di distruzione dei convogli ferroviari tedeschi sulle linee Roma-Cassino e Roma-Formia, che poi fu celebrata da Nanni Loy nel film Un giorno da leoni.
Il 4 marzo 1944 Martelli Castaldi scrisse alla moglie delle torture subite dalle SS, precisando: «Io non gli ho mai data la soddisfazione di un lamento, solo alla 24ª nerbata risposi con un pernacchione che fece restare i tre manigoldi come tre autentici fessi». Tra le sue carte anche un biglietto autografo con la piantina del carcere, che doveva servire ad organizzare la fuga sua, di Montezemolo e di altri membri del Fronte lì rinchiusi. 
Purtroppo morirono tutti alle Fosse Ardeatine.
Un altro fondo rilevante è quello dell’avvocato Giannetto Barrera, anche lui collaboratore del Fronte militare clandestino di Montezemolo, che dopo il 4 giugno 1944 fu al servizio della polizia alleata. Barrera fu uno dei pochi ad avere il permesso di entrare nel palazzo di via Tasso, che dopo la fuga dei tedeschi fu sequestrato dalle autorità alleate. Le carte donate al Museo restituiscono informazioni sugli aspetti amministrativi-gestionali e sulle attività informative dell’Organizzazione Commissariati del Fronte militare clandestino e dell’Ufficio militare presso la Questura di Roma.
Vanno poi segnalati l’archivio dell’ingegner Amedeo Coccia, esponente del Movimento dei cattolici-comunisti, i messaggi in punta di morte del pittore-partigiano Giordano Bruno Ferrari, prima della fucilazione a Forte Bravetta, e il prezioso quadro Il Tevere a Saxa Rubra, che stava dipingendo al momento dell’arresto da parte delle SS, e i documenti e le lettere di Dino Terracina, ebreo romano scampato miracolosamente alla deportazione del 16 ottobre e alla strage delle Fosse Ardeatine, come narrò egli stesso nel 1944 in una straordinaria lettera allo zio emigrato negli Usa.
Parisella ha anche presentato il lavoro sviluppato per la digitalizzazione dei documenti esposti nelle bacheche del Museo, realizzato con il supporto tecnico del Consiglio Nazionale delle Ricerca. È stata creata fra l’altro una banca dati delle 1.132 biografie di coloro che transitarono in quel periodo nel carcere nazista di via Tasso. Il frutto di questa ricerca, condotta da Glielmi e Giovanna Montani, sotto la direzione scientifica dello stesso Parisella, è disponibile presso la sezione multimediale del Museo.
Il presidente ha infine rivolto un appello alle famiglie degli ex partigiani e a chiunque possegga documentazione o oggetti relativi al periodo e ai romani e alle istituzioni per il sostegno alla struttura, che ha un bisogno disperato di fondi per le proprie attività. Il conto corrente è il n. 51520005, intestato a Museo storico della Liberazione, via Tasso 145, 00185 Roma. «Anche un piccolo versamento – ha spiegato Parisella – può aiutare a far sopravvivere la Memoria della Resistenza di Roma in questa triste epoca di tagli».

(Il Messaggero, 20 ottobre 2012)

ecco il link: articolo Messaggero                     

martedì 2 ottobre 2012

Piero Melograni


Melograni raccontò l’altra faccia della Storia


di Mario Avagliano

Uno storico liberale, eterodosso, che primo in Italia, nel 1976, sfidò certi tabù sul rapporto tra il regime fascista e i suoi oppositori, con la celebreIntervista sull’antifascismo a Giorgio Amendola (Laterza). Ma anche uno straordinario divulgatore televisivo e di prodotti multimediali di successo, come Combat film
Era tutto questo Piero Melograni, nato a Roma il 15 novembre 1930, professore emerito di storia contemporanea all'Università di Perugia, «uomo d’altri tempi, elegante e generoso», scomparso ieri mattina, all'età di 81 anni, nella sua casa nella capitale, dopo una lunga malattia «che lo aveva debilitato – come ricorda il suo collega Pino Pelloni – in quella che è la materia prima dello storico: la memoria». 



Melograni si iscrisse al Pci nel 1946, ad appena sedici anni di età, e ne uscì con un altro centinaio di intellettuali, firmatari del Manifesto dei 101, nel 1956, in aperta polemica contro l’invasione sovietica in Ungheria. Lasciata la politica per circa un trentennio, si dedicò all'attività storica e universitaria. Amico di Renzo De Felice, realizzò importanti studi sul fascismo (a partire dal libro Mussolini e gli industriali, Longanesi, 1972), sul comunismo e sulla prima guerra mondiale. La sua Storia politica della Grande Guerra 1915-1918 (Laterza, 1969) è ancora un punto di partenza obbligato per chi studia le vicende di quel periodo. Il file rouge delle sue ricerche, espresso in particolare nei saggi Fascismo, comunismo e rivoluzione industriale (Laterza, 1984), La paura della modernità (Cedis, 1987) e La modernità e i suoi nemici (Mondadori, 1996), è la forte critica al ruolo recitato in Italia dal fascismo e dal comunismo, ideologie che a suo avviso avevano in comune il rigetto del libero mercato e del valore del merito. Melograni riapparve sulla scena politica nel 1996, quando fu eletto deputato come indipendente nelle liste di Forza Italia. Nel 2001, però, decise di non ricandidarsi, spiegando di essere «deluso dalla vita parlamentare: siamo dei semplici spingitori di bottoni».Tornato all’attività di storico, curò serie tv e prodotti multimediali di larghissima diffusione quali: Combat Film e La guerra degli italiani 1940-1945(entrambi con Roberto Olla) e La Storia della Seconda Guerra Mondiale (con Pino Pelloni).Negli ultimi tempi Melograni si era interessato anche ai grandi musicisti: nel 2003 aveva pubblicato il saggio WAM(Laterza), dedicato a Mozart, e nel 2007 Toscanini (Mondadori). Notevole anche la sua traduzione de Il Principe di Machiavelli in italiano moderno (Rizzoli, 2006). Nel 2010, infine, diede vita al Premio Fiuggi Storia.La sua scomparsa ha suscitato commozione nel mondo politico e degli storici. Tanti i messaggi di cordoglio, che sottolineano «il vuoto lasciato nella cultura italiana». Ha voluto ricordarlo anche il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, suo antico amico, sottolineando le «molteplici prove del suo valore nella ricerca storica » e la sua capacità di affiancare al talento di studioso «una rara felicità di moderno comunicatore». 

(Il Mattino, 28 settembre 2012)

martedì 25 settembre 2012

1943-1945, parole dall’Italia in lotta di Mario Avagliano


1943-1945, parole dall’Italia in lotta


di Mario Avagliano

«Si aspetta l’evolversi della situazione. I combattimenti in direzione di Salerno sono traditi dal rumore degli aerei che, in continuazione, passano sulle nostre teste. Esso è ben distinto da quello dei cannoni che tuonano ad una ventina di chilometri». Così scrive nel suo diario il 9 settembre 1943  il diciottenne Pietro Sorrentino, originario di Castellabate, commentando lo sbarco degli Alleati nel golfo di Salerno, affacciato alla finestra dell’appartamento degli zii a Pagani. Alla fine dell’estate del 1943 la guerra entra in casa degli italiani, in un Paese ridotto a luogo di macerie materiali e morali.
Nella memoria degli italiani gli eventi del pur breve periodo tra il 25 luglio, che segnò la defenestrazione di Benito Mussolini, e il successivo 8 settembre, in cui in un pugno di ore l’Italia si arrese, fu spezzata in due e occupata da soldati tedeschi e anglo-americani, hanno assunto un valore cruciale, sul quale la storiografia continua ad interrogarsi. Così come il biennio 1943-1945, funestato da stragi, fucilazioni, deportazioni, fame e bombardamenti, ma segnato anche da atti eroici, lotte per la libertà e grandi pulsioni ideali.
Il variegato puzzle dei sentimenti, delle angosce, delle gioie e delle passioni che animarono gli italiani di allora, divisi tra Resistenza e Repubblica sociale, è stato ricostruito dallo storico Luigi Ganapini, con la sensibilità e il rigore che gli sono propri, nel saggio Voci dalla guerra civile (il Mulino, pp. 310, euro 23), in uscita il 20 settembre in libreria. Le fonti a cui ha attinto Ganapini sono i diari e le memorie dell’Archivio diaristico di Pieve Santo Stefano, vera miniera della memoria del nostro Paese. Parlano in queste pagine le tante anime di una nazione che nell’autunno del 1943 pareva destinata a scomparire. Voci diverse fra loro: uomini e donne, settentrionali e meridionali, partigiani e aderenti a Salò, deportati e internati militari, cattolici ed ebrei.

Il racconto corale parte dal 25 luglio, giorno in cui, scrive la contadina emiliana Margherita Iannelli, residente a Marzabotto, «la gente si riversò nei paesi, tutti urlavano a più non posso. Chi gettava le immagini del Duce dalle finestre e altri le calpestavano e gli sputavano sul viso. Ma l’urlo immane fu quello che tutti dicevano: “Finalmente siamo liberi e potremo parlare”». E i fascisti? «Restarono zitti – ricorda la toscana Albertina Tonarelli –, non sapevano che fare, restarono come bastonati».
I primi 45 giorni del governo guidato da Pietro Badoglio non furono memorabili. «La guerra sembra a tutti perduta – annota il romano Mario Tutino -. Si tratta di uscirne non dico col minor danno, ma senza disonore». Le cose vanno in modo differente. «Al mattino dell’8 settembre si sparse la notizia della fuga del Re e dei suoi generali», racconta il torinese Ercolino Ercole, in servizio di leva a Marina di Massa. In poche ore i tedeschi disarmano i soldati italiani, anche per la viltà degli ufficiali, ma nella notte il giovane fugge. E quando arriva a Torino, è «pieno di rabbia, conscio di essere stato fregato dal libro “Cuore”, dal re vittorioso, da “Giovinezza”, dal “Dio, patria famiglia”, da tutto quel ciarpame».
In quei giorni centinaia di migliaia di nostri soldati vengono catturati dai tedeschi, senza sparare un colpo o dopo coraggiosi tentativi di resistenza. Per tutti gli italiani sotto il tallone nazifascista, è il momento delle scelte. «Oggi dobbiamo combattere contro i nazisti, che sono i nostri veri nemici», annota nel suo diario la senese Bruna Talluri, che poi entrerà nella Resistenza.  Tra i soldati della divisione Emilia, di stanza in Dalmazia, si apre invece un dibattito, ricorda il riminese Aurelio Bernardi: «c’è chi vuole essere fedele al duce, chi vuole seguire le direttive di Badoglio, altri pensano solo alla pelle». Bernardi sarà uno dei 650 mila militari italiani internati in Germania che dirà «no» alle proposte tedesche di aderire all’esercito della Repubblica sociale del redivivo Mussolini, pagando la sua decisione con il campo di concentramento e trascorrendo il tempo, come fa Giorgio Cranz, «non pensando altro che a roba da mangiare».
Le memorie e i diari citati da Ganapini svelano la storia di quel biennio al di là degli stereotipi. E quindi accanto ai tedeschi violenti e cattivi, vi sono anche quelli buoni e stanchi di combattere, ai quali magari regalare un bacio, anche se sono «il mio nemico», come accade alla partigiana Cesarina Veneri. Tra gli italiani c’è chi resiste sui monti, in campagna e nelle città, rischiando la vita e le fucilazioni («altri sette li hanno presi, costretti a stendersi a terra, in piazza, tra la folla atterrita: li hanno finiti scaricando loro addosso i mitra», annota nel suo diario Irene Paolisso da Trivio di Formia), e chi invece, come la torinese Zelmira Marazio, aderisce a Salò e appunta orgogliosa il distintivo sulla camicetta, salvo notare per strada sguardi «cupi, minacciosi» e «una carica di odio» da parte della gente.
Fino alla gioia della liberazione, alle «tavolette di cioccolata nera e bianca… un vero godimento», ai balli americani col grammofono, alla riscoperta della libertà «di parlare, di scrivere» e purtroppo anche alle esecuzioni sommarie, che Maria Assunta Fonda rievoca con pena e pietà. E fino al triste rientro a casa di deportati politici e di internati militari, umiliati dalla freddezza della Patria. «Addirittura il mio nome – racconta Alessandro Roncaglio – era diventato “Mauthausen” pronunciato spesso con scherno e in tono canzonatorio. Sono addolorato nel dirlo: il tempo, gli affari, la vita quotidiana della gente stava spegnendo tutto mettendo sotto la cenere ricordi, martiri e morti».

(Il Mattino, 17 settembre 2012)

venerdì 21 settembre 2012

Scintilla


“Scintilla”, la Resistenza Romana nelle Memorie di un Fioraio Partigiano [Video]

Scintilla nella Resistenza romana (copertina)Nell’era dello spread, degli hedge-fund e del debito sovrano fa piacere leggere italianissimi racconti di idealismo e umanità tratti dal vissuto della nostra storia.
È il caso di “Scintilla nella Resistenza Romana”, un libro pubblicato da Franca Raponi per le Edizioni Associate. Non si tratta della solita rivisitazione della Resistenza vista con gli occhi del mondo attuale.
L’autrice utilizza le sue memorie familiari e il materiale lasciatole dal padre Agostino Raponi per regalarci un racconto estremamente vivo, nel linguaggio come nei contenuti, in cui spesso aneddoti apparentemente insignificanti rendono perfettamente l’idea di cos’era vivere la lotta armata e la clandestinità non solo nel corso delle azioni di guerriglia ma anche nella quotidianità.
Particolare risalto all’interno delle testimonianze contenute nel libro è attribuito al ruolo delle donne, che condividendo i rischi, gli arresti e le torture con i loro uomini sono state protagoniste e non solo comprimarie della lotta partigiana.
Le vicende del fioraio Agostino Raponi e della Quinta zona del Pci in via Catanzaro 1/3 – questo il sottotitolo del libro – regalano anche uno spaccato della Roma di quegli ultimi anni del regime. Una Roma assediata e affamata ma sempre viva, con i suoi abitanti pronti a tirare fuori dal cilindro ogni riserva di ingegno per ingannare l’invasore o semplicemente sbarcare il lunario.
Mette persino tenerezza l’idealismo di Agostino Raponi, che dopo l’8 settembre, dal carcere, redarguiva la moglie intenzionata a comprare la casa di via Catanzaro con l’aiuto di uno zio perché i proprietari, terrorizzati dai bombardamenti, la vendevano a un prezzo d’occasione: “Che sei matta?”, urlò il partigiano alla consorte, “Ora che la guerra finisce la casa dev’essere un diritto per tutti! Io sono in carcere per questo, per difendere questi diritti e per una nuova giustizia sociale!”.
Come ha scritto giustamente Margherita Hack nella sua prefazione, questa “non vuole essere un’opera letteraria ma solo un documento vissuto in prima persona e un invito a NON DIMENTICARE. La democrazia è un bene che dobbiamo sempre difendere perché non abbiamo mai garanzia di averla conquistata per sempre”.

sabato 8 settembre 2012

Stori@ - il blog di Mario Avagliano: Graziani, il sacrario e il collaborazionismo con H...


Graziani, il sacrario e il collaborazionismo con Hitler

di Anna Foa

Affile, piccolo comune del Lazio, noto per aver dato i natali al maresciallo Graziani e per avergli offerto sepoltura, inaugurerà sabato un sacrario alla memoria del ministro della Difesa del governo di Salò. Nell'inevitabile polemica derivata da questa notizia, il sindaco di Affile ha minacciato di querela l'ANPI, che opponendosi al sacrario ha detto che Graziani era stato condannato per crimini di guerra, sostenendo che questi era stato condannato invece per collaborazionismo (nel 1948, una condanna a diciannove anni di cui scontò solo due anni). 
Qui le versioni della stampa divergono, in alcune si dice "per collaborazionismo", in altre "solo per collaborazionismo". Senza il "solo", infatti, quel che il sindaco di Affile vuol dire è che il collaborazionismo con i nazisti è stato un fatto positivo, di lealtà all'Italia, non un crimine di guerra. Se ci aggiungiamo il "solo", vuol dire che il collaborazionismo è piccola cosa, assai minore dei crimini di guerra, e che non vale la pena di fare tanto chiasso in proposito. Dal punto di vista storico, è vero che il maresciallo Graziani è stato condannato "soltanto" per il reato di collaborazionismo, come per collaborazionismo, oltre che per tradimento, fu processato in Francia Pétain, condannato a morte e salvato dalla grazia di De Gaulle. Ma la storia ci dice anche, fondandolo su prove irrefutabili, che il maresciallo Graziani ha ordinato l'uso dei gas, l'iprite in particolare, in Abissinia, e ha ordinato rappresaglie sulla popolazione civile, impiccagioni, repressioni senza numero. Il fatto che il tribunale lo abbia condannato "per collaborazionismo", e non per questi suoi crimini di guerra, ci fa forse dimenticare che cosa comportava la collaborazione con i nazisti che avevano invaso il nostro paese? Arresti di ebrei operati in prima persona dai militi della RSI, da Graziani diretti, e consegnati alla deportazione, il proclama che porta la sua firma in base al quale i soldati italiani che non accettarono tale collaborazione furono inviati in deportazione (oltre seicentomila!), repressioni e violenze di ogni tipo nella lotta contro la Resistenza. Aspettiamo il processo per diffamazione minacciato dal sindaco di Affile per dire tutti insieme che Graziani fu un criminale di guerra, e per dirlo a voce alta appoggiandosi, stavolta, sui documenti della storia. 

(l'Unione Informa, 6 agosto 2012)




Stori@ - il blog di Mario Avagliano: Graziani, il sacrario e il collaborazionismo con H...: di Anna Foa Affile, piccolo comune del Lazio, noto per aver dato i natali al maresciallo Graziani e per avergli offerto sepoltura, ina...

martedì 28 agosto 2012

Gramsci. Burattini e burattinai di un arresto (di Mario Avagliano)


Gramsci. Burattini e burattinai di un arresto


di Mario Avagliano

La tragica coda della vicenda politica ed esistenziale di Antonio Gramsci costituisce un appassionante enigma storiografico. A distanza di 75 anni dalla morte del fondatore del partito comunista d’Italia, i punti oscuri sono ancora molti. Dopo l’arresto, fu davvero abbandonato al suo destino da Stalin e Togliatti perché ritenuto troppo ingombrante? E la sua impietosa critica al modello sovietico si spinse fino all’abiura del marxismo, in un quaderno dal carcere rimasto segreto?
Alcuni saggi usciti nelle ultime settimane aggiungono qualche importante tassello alla conoscenza dei fatti. Non mancando di suscitare un vivace dibattito, con Massimo D’Alema che punta il dito su lobbies ed élites tecniche: “La polemica sul Togliatti stalinista e sul Gramsci eretico è falsa e strumentale. Vogliono delegittimare le culture politiche del dopoguerra e i partiti che ne sono gli eredi”.

Per dipanare la matassa, il punto da cui partire – suggerisce Giuseppe Vacca, presidente della Fondazione Gramsci e autore di Vita e pensiero di Antonio Gramsci. 1926-1937 (Einaudi, pp. 367, euro 33) - è la critica ai “compagni” russi. “Voi oggi state distruggendo l’opera vostra”, scrive Gramsci il 14 ottobre 1926, su incarico dell’Ufficio politico del Pcd’I, in una vibrante lettera al Comitato centrale del partito comunista sovietico. Vacca  mette in rilievo  che non si tratta di una semplice accusa di metodo riguardo all’espulsione di Trotzki & Co.: Gramsci segna in modo insanabile e definitivo la sua presa di distanza dalla politica messa in atto da Stalin.
Un mese dopo quel messaggio, l’8 novembre 1926, in violazione dell’immunità parlamentare, Gramsci viene tratto in arresto dalla polizia fascista e rinchiuso a Regina Coeli. Inizia la sua odissea giudiziaria e carceraria. Nel febbraio 1928, mentre si trova nel carcere milanese di San Vittore, riceve una lettera di un dirigente del partito, Ruggiero Grieco, partita da Basilea e guarda caso transitata per Mosca, che lo fa “inalberare” perché “compromettente”, in quanto rivela che è il capo del Pcd’I.
Siamo alla vigilia del processo a ventidue imputati comunisti, tra i quali figurano, oltre a Gramsci, Umberto Terracini e Mauro Scoccimarro, e il regime è all’affannosa ricerca di elementi di accusa nei confronti del pensatore sardo. La missiva potrebbe essere utilizzata contro di lui. E il giudice istruttore Enrico Macis commenta sardonico: “Onorevole Gramsci, lei ha degli amici che certamente desiderano che lei rimanga un pezzo in galera”. 
A maggio si celebrerà il processo e il pubblico ministero Isgrò concluderà la sua requisitoria con una frase rimasta famosa: «Per vent'anni dobbiamo impedire a questo cervello di funzionare». Una richiesta accolta dal Tribunale. Quanto abbia contato la lettera ai fini della condanna, è oggetto di discussione. Gramsci, tuttavia, fino all’ultimo sospetterà che dietro a Grieco si nasconda Togliatti.
Su questa lettera di Grieco, definita di volta in volta da Gramsci “strana”, “famigerata” e addirittura “un atto scellerato”, gli storici si sono esercitati da tempo. Vacca, nel suo saggio, esclude la tesi del complotto interno: Togliatti non aveva bisogno di sabotare i tentativi di scarcerazione di Gramsci in quanto Mussolini odiava di suo il comunista sardo e lo stesso Cremlino non aveva alcun interesse a liberarlo, per le sue posizioni eterodosse.
Ma allora chi fu a manovrare Grieco? Luciano Canfora, in un altro libro uscito nelle ultime settimane, Gramsci in carcere e il fascismo (Salerno editore, pp. 304, euro 12), non esclude che questi abbia scientemente cercato di danneggiare Gramsci (e Terracini e Scoccimarro, destinatari di altrettante missive), su mandato dell’Ovra, la polizia segreta fascista. Una pista che sarebbe avvalorata anche dall’imbarazzante Appello ai fratelli in camicia nera redatto dallo stesso Grieco nell’agosto 1936 sulle colonne del periodico “Lo Stato operaio”, nel quale proponeva di far proprio il programma mussoliniano del 1919.
Le tre missive in cui Gramsci parla di Grieco furono in ogni caso eliminate dalla prima edizione delle Lettere dal carcere del 1947. D’altronde Palmiro Togliatti, appena quindici giorni dopo la morte di Gramsci (27 aprile 1937), aveva inviato una direttiva ai compagni comunisti del Centro estero per esortarli a “non prendere nessuna iniziativa di pubblicazione di lettere e altro materiale inedito (di Gramsci) senza accordo con me”.
L’intento censorio era evidente. E infatti l’intera opera di Gramsci fu sottoposta a pesanti tagli da Felice Platone, con la supervisione dello stesso Togliatti. Furono espunti i riferimenti agli ereticiTrotzki e Rosa Luxemburg ma anche molti brani di carattere più umano.
Canfora scrive che l’operazione rappresentò in quel momento storico “la sola via che potesse avvicinare quelle pagine a un pubblico più ampio”. Quale che siano stati i reali intenti di Togliatti (Nunzio Dell’Erba, in polemica con Canfora, ritiene che il Migliore volesse “costruire un piedistallo per se medesimo come erede dell’opera di Gramsci, occultando i motivi delle loro divergenze politiche”), vi sono punti ancora da chiarire.
Lo stesso Canfora si dilunga sul ruolo di informatore dell’Ovra che avrebbe svolto l’anarchico Ezio Taddei, nel dopoguerra approdato a Botteghe Oscure. E Franco Lo Piparo, in un altro volume uscito di recente, I due carceri di Gramsci. La prigione fascista e il labirinto comunista (Donzelli, pp. 144, euro 16), avanza l’ipotesi che Togliatti abbia fatto sparire un intero Quaderno, il n. 34, nel quale Gramsci avrebbe preso le distanze dal comunismo tout court. In effetti lo stesso Togliatti fin dall’inizio parlò di 34 quaderni dal carcere, ma ne sono conosciuti (e sono stati pubblicati) solo 33.
Insomma, c’è ancora materia per gli storici. David Bidussa invita ad indagare sulla pista di Cambridge. Dove viveva l’economista Piero Sraffa, che assieme alla cognata Tania Schucht fu la persona più vicina a Gramsci nel periodo della detenzione e dopo la sua scomparsa trasmise a Togliatti le copie delle lettere e dei quaderni. È in Inghilterra la soluzione dell’enigma?

(Il Messaggero, 31 luglio 2012)

lunedì 9 luglio 2012

Salvò 2500 bambini dal ghetto di Varsavia, è la “Schindler al femminile” – Il Fatto Quotidiano

Salvò 2500 bambini dal ghetto di Varsavia, è la “Schindler al femminile” – Il Fatto Quotidiano


Salvò 2500 bambini dal ghetto di Varsavia, è la “Schindler al femminile”

L'eroina della seconda guerra mondiale morta a 98 anni nel 2008, fu riscoperta per caso, 13 anni fa, da un gruppo di ragazze del Kansas che preparavano una ricerca di storia. Ora, dopo film e documentari, a ricordarla, anche una voce dell'Enciclopedia britannica

Irena_Sendler_interna nuova
Non smette di far parlare di sé Irena Sendler, l’eroina della seconda guerra mondiale morta a 98 anni nel 2008, dopo essere stata riscoperta per caso, 13 anni fa, da un gruppo di ragazze del Kansas che preparavano una ricerca di storia. A narrare l’epopea della donna polacca che salvò 2.500 bambini ebrei dal ghetto di Varsavia, arriva anche l’Encyclopaedia Britannica, il cui motto è “Facts matter” (I fatti importano), che, nella sua versione online, le ha recentemente riservato una voce.
Irena entrò nello Zegota, il Consiglio clandestino polacco di aiuto agli ebrei, nel ’43. Grazie al suo lavoro di assistente sociale poté introdursi nel ghetto della capitale e portar via, nascondendoli con incredibili trucchi, migliaia di bambini destinati a morte certa, di stenti o nei campi di concentramento. Non era sola: Irena fu aiutata da coraggiosi collaboratori e da una rete di famiglie non ebree disposte a ospitare i bambini, ribattezzati con nomi non sospetti. Le vere identità furono trascritte e sepolte dentro barattoli in un giardino. Dopo la guerra, Irena, che nel frattempo era stata torturata dai nazisti ed era scappata poco prima dell’esecuzione, non riuscì a riconsegnare ogni bimbo alla propria famiglia: molte, infatti, non c’erano più.
la copertina del film "The corageous heart of Irena Sendler" del 2009
E’ una storia incredibile, quella di Irena, fatta di coincidenze salvifiche. Basti pensare che il 23 settembre 1999 perse il figlio Adam. Ma fu anche il giorno esatto in cui, dall’altra parte del mondo, in una cittadina del Kansas rurale e depresso, Uniontown, tre ragazze della highschool, al lavoro per un compito, scoprivano la sua storia, accennata in un articolo di giornale. L’hanno cercata, l’hanno trovata, le hanno scritto, sono andate a visitarla. E così è nato The Irena Sendler Project, che da oltre 10 anni porta in giro per States e Europa lo spettacolo “Life in a Jar”(La vita in un barattolo). Ha eventi in programma fino al 2015 e Megan Stewart Felt, una delle 3 ragazze che fecero la ricerca, ha ancora la parte di Irena. Da allora Irena ha ispirato vari libri, due film (uno è “The corageous heart of Irena Sendler” del 2009, protagonista Anna Paquin) e ha conquistato una candidatura al Nobel per la Pace, nel 2007.
“Siamo sempre meravigliati dal raggio d’azione della storia di Irena. Il nostro sito riceve email a ogni ora del giorno. Siamo fieri di aver condiviso il lascito di Irena col mondo” ha dichiarato aIlfattoquotidiano.it Norman Conard, il professore di storia che nel ’99 assegnò alle 3 studentesse la ricerca che avrebbe cambiato per sempre le vite loro e di Irena. “Era destino… ci sono così tante ironie in tutto ciò. La tempistica era ed è ancora perfetta” conclude Conard, che ha lasciato l’insegnamento per dedicarsi al Lowell Milken Center, una fondazione per la riscoperta degli eroi dimenticati.
Ma come è possibile che la storia di questa Schindler al femminile sia rimasta sepolta per 60 anni? “I polacchi che fecero la resistenza furono considerati “nemici dello Stato” dai russi, perché connessi al governo polacco in esilio a Londra e all’occidente. Molte donne della cospirazione di Irena dopo la guerra furono torturate dai russi. Non fu che alla fine della guerra fredda che la storia dello Zegota divenne nota fuori dalla Polonia”, ci spiega a Mary Skinner, la regista statunitense, figlia di una deportata polacca, che ha diretto il docufilm “Irena Sendler – In the name of their mothers” (2011), che ritrae Irena nelle ultime interviste rilasciate prima di morire.

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