mercoledì 29 giugno 2011

Il linciaggio di Carretta direttore di Regina Coeli

ARDEATINE E DINTORNI L' autore e' De Santis. Ma fu Visconti a filmare la folla che durante il processo al questore Caruso si scaglio' contro un testimone

ROMA 1944. Linciaggio con giallo

Torna " Giorni di gloria " . Senza la scena dell' esecuzione del direttore di Regina Coeli. E la gente inferocita butto' l' uomo nel Tevere. Il doppio gioco non salvo' Carretta


----------------------------------------------------------------- E la gente inferocita butto' l' uomo nel Tevere ARDEATINE E DINTORNI L' autore e' De Santis. Ma fu Visconti a filmare la folla che durante il processo al questore Caruso si scaglio' contro un testimone Linciaggio con giallo Torna "Giorni di gloria". Senza la scena dell' esecuzione del direttore di Regina Coeli DTORINO al Festival Cinema Giovani raggiungo al telefono nella sua casa di Fiano Romano un giovane che il 7 febbraio prossimo compira' 80 anni: Giuseppe De Santis, del quale si proietta stasera la copia restaurata dell' opera prima "Giorni di gloria", un documentario firmato a quattro mani con Mario Serandrei. Gli chiedo prima di tutto: Serandrei, grande montatore, giro' qualcosa o si occupo' solo dell' edizione? "Serandrei, per la verita' , ebbe per primo l' idea di mettere insieme un film sulla lotta di liberazione. I materiali li ottenemmo dall' Anpi, l' Associazione dei partigiani, e dagli americani del Pwb. Le altre scene le girammo io, Luchino Visconti e Marcello Pagliero". Nel bel volume "Rosso fuoco. Il cinema di Giuseppe De Santis", che ti ha appena dedicato, proprio qui a Torino il Museo del Cinema, in un' intervista con Sergio Toffetti tu affermi di aver girato una parte del processo al questore di Roma Pietro Caruso. "No, ci siamo fraintesi. Quel processo l' ha girato tutto Visconti, con tre macchine. Fece tutto lui, io non ero neanche sul posto. E quando si scateno' l' aggressione della folla contro Donato Carretta, l' ex direttore di Regina Coeli presente come testimone, Luchino sguinzaglio' un operatore che filmo' tutte le fasi del linciaggio". Per conto mio, sono quasi certo di aver visto in "Giorni di gloria" (al tempo della sua uscita nel novembre ' 45) un' inquadratura tremenda, indimenticabile: un totale di Carretta gia' brancolante nelle acque del Tevere, con la folla inferocita che si sporge dai parapetti e qualcuno che gli assesta una botta in testa con un remo, sporgendosi da un barcone. C' era questa scena nel film? O me la sono inventata? "Non te la sei inventata, c' era, c' era". E come mai il totale di Carretta nel fiume non c' e' piu' ? "Non saprei dirtelo, qualcuno in seguito l' avra' tagliato. Forse per lo stesso motivo per cui non montammo scene anche piu' terribili, come lo scempio del cadavere di Mussolini a piazzale Loreto. Diciamo per carita' di patria". E alle Fosse Ardeatine non sei entrato? "Non ce l' ho fatta, sono rimasto fuori. L' orrore dell' interno l' ha girato Pagliero, che era piu' coriaceo di me, piu' distaccato, un po' come Rossellini con cui interpreto' "Roma citta' aperta". Ma dovevi vedere che faccia aveva quando usci' da quell' inferno. Io ho girato l' esterno, lo strazio dei parenti, le interviste alle donne in lacrime". Il commento parlato, piuttosto debordante, porta le firme di Umberto Calosso e Umberto Barbaro. Lo scrissero insieme? "No, Calosso presto' solo la sua voce, che il pubblico simpaticamente conosceva dalle trasmissioni di Radio Londra. L' errore nostro fu quello di affiancargli uno speaker tradizionale. Nello scrivere da solo il testo, Barbaro forse esagero' . Lui era fatto cosi' , ci dava dentro. Ma tutti in quel momento eravamo pieni di passione". Come ricordi "Giorni di gloria"? "Fu un' operazione fatta con il cuore e con la rabbia, ma anche con la gioia di mostrare alla fine che gli italiani si erano rimboccati le maniche per rimettere in piedi il nostro Paese".* ----------------------------------------------------------------- Il doppio gioco non salvo' Carretta La prima udienza del processo a Pietro Caruso, questore di Roma, si tenne all' Alta Corte di giustizia costituita per giudicare i crimini fascisti il 18 settembre 1944. Era il primo processo celebrato dopo la liberazione della citta' e le imputazioni a carico di Caruso erano gravissime: oltre alla collaborazione con i tedeschi nella persecuzione dei patrioti, la violazione dell' extraterritorialita' di San Paolo fuori le Mura in combutta con la banda Koch per arrestare i militari e i politici che vi avevano trovato rifugio. Soprattutto la consegna ai tedeschi di 55 detenuti italiani per completare il numero, su richiesta di Kappler, degli ostaggi da fucilare alle Fosse Ardeatine. Caruso era stato trasportato in aula in barella, perche' fuggendo al Nord il 4 giugno era finito con l' automobile contro un albero a Viterbo e si era rotto una gamba. Per mesi, durante l' occupazione, era stato forse il personaggio piu' odiato di Roma, il complice del generale tedesco Maeltzer, il responsabile (secondo l' atto d' accusa) dell' orrenda selezione compiuta nelle carceri di Regina Coeli per obbedire a Kappler che reclamava altre vittime per la rappresaglia all' attentato di via Rasella. C' era una folla eccitata in attesa, molte donne gridavano e piangevano: erano le madri e le mogli dei martiri delle Ardeatine. Il servizio d' ordine non era all' altezza. Caruso giaceva su una barella in un locale adiacente all' aula, gridavano perche' volevano vederlo, manifestargli l' odio e il disprezzo accumulati per mesi. Aveva una carriera di fascista che non ammetteva dubbi nel giudizio. Era stato, prima di venire destinato a Roma, questore di Verona durante il processo a Ciano e in quell' occasione, con Pavolini, si era impegnato per non far giungere a Mussolini le domande di grazia dei condannati che dovevano morire. Ora, venuto il suo turno, la sentenza, anche per il clima in cui si celebrava il processo, era scritta. Caruso, condannato a morte il 21 settembre, fu subito fucilato. Il primo testimone fu il direttore delle carceri di Regina Coeli, da dove erano stati prelevati i cinquantacinque da consegnare a Kappler. Si chiamava Donato Carretta. Si presento' ai giudici per raccontare la sua versione sulla lista dei detenuti mandati a morire (lista, per la verita' , piu' volte manipolata, qualche nome tolto, qualche altro aggiunto, nella gran confusione i tedeschi aprirono le celle e prelevarono a caso, a chi toccava toccava). Carretta era in attesa di giudizio d' epurazione, per l' incarico rivestito tra l' armistizio e la Liberazione: ma l' uomo era astuto e, tempestivamente, si era procurato delle benemerenze lasciando uscire di prigione alcuni politici importanti, facendo il doppio gioco, fino al punto di tenersi in contatto con il Cnl e di procurarsi addirittura un certificato di benemerenza di Nenni. Il suo stato d' animo, quel giorno, era quello d' una persona che non si aspetta di finire sotto accusa e addirittura di venire indicato come responsabile di quelle cinquantacinque morti. Ma, come era comparso in aula, subito si era scatenata su di lui l' ira incontrollata della folla, gia' esasperata dal fatto di non vedere Caruso tra le sbarre. Balzo' su un tavolo come un' ossessa una donna, lo indico' col dito, e urlo' : "Ha fatto morire mio figlio, e' stato lui a mandarlo alle Ardeatine, deve pagare, uccidetelo...". Non occorreva altro perche' la polveriera esplodesse. La debole difesa dei carabinieri fu travolta, Carretta fu afferrato da cento mani, sollevato da terra, spinto a calci e pugni verso l' uscita. Venne trascinato fino al bordo del Lungotevere; intanto sopraggiungeva un tram e l' infelice fu sdraiato sulle rotaie perche' il veicolo lo straziasse, parendo troppo dolce per lui qualsiasi altra morte. Il tramviere fermo' il tram, tolse la manovella dal comando e scese. Agli energumeni che gli si scagliarono addosso disse che lui non era un assassino, e alle accuse di essere invece un fascista rispose mostrando la sua tessera del partito comunista: si chiamava Angelo Salvatori e credo che il suo nome dovrebbe essere ricordato. Carretta, ancora in se' , fu scaraventato nel Tevere dal Ponte Umberto. Cadde in acqua, si afferro' ai bordi, ma gli schiacciarono le mani con i piedi, sicche' si abbandono' alla corrente. Due uomini saltarono su una barca, lo raggiunsero e cominciarono a colpirlo con i remi sulla testa. L' infelice urlava e aveva ancora la forza di tentare di salvarsi, nuotando e lasciandosi andare sott' acqua per evitare i colpi. Ma ogni volta che riemergeva il linciaggio riprendeva, finche' una larga chiazza rossa di sangue intorno al suo corpo fece intendere che era morto. Il fiume trascinava via il cadavere, ma al Ponte Sant' Angelo riuscirono a tirarlo a riva, la folla non era ancora sazia del suo orrendo pasto. Si udiva gridare "A Regina Coeli, a Regina Coeli", perche' si voleva che Carretta avesse l' estrema punizione d' essere esposto la' dove avrebbe commesso i suoi delitti. Arrivati alla prigione, Carretta seminudo, sfigurato, ricoperto di sangue, con la testa maciullata, fu crocifisso al portone. Le urla, la marea di gente raccolta nella strada, i colpi, le esplosioni selvagge d' un giubilo bestiale fecero affacciare alla finestra due donne. Erano la moglie e la figlia di Carretta e questo completo' la ferocia d' una scena che si apparenta nella vergogna e nell' orrore soltanto alla macelleria messicana di piazzale Loreto. La donna che in aula aveva determinato la condanna a morte di Carretta non aveva avuto nessun figlio ucciso alle Ardeatine. Anzi, non aveva nessun figlio. Si disse poi che era una pazza, ma qualcuno affermo' che si era trattato d' un elemento dello spionaggio sovietico usato per motivi che oggi definiremmo destabilizzanti. E anche perche' nelle vicende italiane un pizzico di dietrologia e di giallo non guasta mai. *
Kezich Tullio
Pagina 27
(18 novembre 1996) - Corriere della Sera

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