lunedì 31 dicembre 2012

Odio il capodanno di Antonio Gramsci


Odio il capodanno


di Antonio Gramsci
«Ogni mattino, quando mi risveglio ancora sotto la cappa del cielo, sento che per me è capodanno. 
Perciò odio questi capodanni a scadenza fissa che fanno della vita e dello spirito umano un’azienda commerciale col suo bravo consuntivo, e il suo bilancio e il preventivo per la nuova gestione. Essi fanno perdere il senso della continuità della vita e dello spirito. Si finisce per credere sul serio che tra anno e anno ci sia una soluzione di continuità e che incominci una novella istoria, e si fanno propositi e ci si pente degli spropositi, ecc. ecc. È un torto in genere delle date. 
Dicono che la cronologia è l’ossatura della storia; e si può ammettere. Ma bisogna anche ammettere che ci sono quattro o cinque date fondamentali, che ogni persona per bene conserva conficcate nel cervello, che hanno giocato dei brutti tiri alla storia. Sono anch’essi capodanni. Il capodanno della storia romana, o del Medioevo, o dell’età moderna. E sono diventati cosí invadenti e cosí fossilizzanti che ci sorprendiamo noi stessi a pensare talvolta che la vita in Italia sia incominciata nel 752, e che il 1490 0 il 1492 siano come montagne che l’umanità ha valicato di colpo ritrovandosi in un nuovo mondo, entrando in una nuova vita. Cosí la data diventa un ingombro, un parapetto che impedisce di vedere che la storia continua a svolgersi con la stessa linea fondamentale immutata, senza bruschi arresti, come quando al cinematografo si strappa la film e si ha un intervallo di luce abbarbagliante. 
Perciò odio il capodanno. Voglio che ogni mattino sia per me un capodanno. Ogni giorno voglio fare i conti con me stesso, e rinnovarmi ogni giorno. Nessun giorno preventivato per il riposo. Le soste me le scelgo da me, quando mi sento ubriaco di vita intensa e voglio fare un tuffo nell’animalità per ritrarne nuovo vigore. Nessun travettismo spirituale. Ogni ora della mia vita vorrei fosse nuova, pur riallacciandosi a quelle trascorse. Nessun giorno di tripudio a rime obbligate collettive, da spartire con tutti gli estranei che non mi interessano. Perché hanno tripudiato i nonni dei nostri nonni ecc., dovremmo anche noi sentire il bisogno del tripudio. Tutto ciò stomaca.”
Antonio Gramsci, 1° Gennaio 1916, l’Avanti!


Tratto da: Odio il capodanno | Informare per Resistere http://www.informarexresistere.fr/2012/12/31/odio-il-capodanno-2/#ixzz2GclFcRc7
- Nel tempo dell'inganno universale, dire la verità è un atto rivoluzionario! 

mercoledì 12 dicembre 2012

Quando i razzisti salirono in cattedra....Di Mario Avagliano


Quando i razzisti salirono in cattedra.... in Germania e in Italia

di Mario Avagliano

Erano belli, brillanti, intelligenti e colti. Furono responsabili della morte di milioni di ebrei. Il nazismo in Germania non fu solo un movimento guidato da folli in preda a deliri di onnipotenza. Hitler si avvalse di una poderosa macchina burocratica e di propaganda che, per funzionare, aveva bisogno di uomini preparati. Giuristi, dottorandi in economia o in storia, giovani laureati costituirono un’élite di intellettuali che svolse un ruolo fondamentale sia dal punto di vista teorico e organizzativo, sia come apparato di esercizio quotidiano del potere.
Ma che cosa spinse questi uomini a mettersi al servizio del nazismo? Un poderoso saggio di una storica francese, Christian Ingrao, intitolato «Credere, distruggere. Gli intellettuali delle SS» (Einaudi, pp. 405, euro 34), cerca di dare una risposta a questo interrogativo, seguendo i percorsi biografici e culturali di ottanta di loro.

Secondo la tesi della Ingrao, che ha fatto già discutere in  Francia e in Germania, grosse colpe sono addebitabili alla cultura bellica e alle vicende della Grande Guerra, che ebbero particolare influenza sui bambini tedeschi di allora, tanto più quelli provenienti dalle aree di confine, che subirono occupazione ed espropri da parte delle Nazioni vincitrici del conflitto. Werner Best, ad esempio, a undici anni durante la guerra perse il padre, il quale gli lasciò una lettera in cui esortava lui e il fratello «a diventare uomini, tedeschi e patrioti».  
Gli studenti tedeschi degli anni 1918-1924, futuri intellettuali delle SS, espressero con la massima chiarezza questa angoscia escatologica e costituirono il grosso delle truppe delle varie formazioni paramilitari sorte in quel periodo. La loro militanza proseguiva la lotta contro il trattato di Versailles, che aveva umiliato i tedeschi, per la salvaguardia della nazione assediata da  un «mondo di nemici», esterni ed interni, ed ebbe come valvola di sfogo finale l’adesione in massa al movimento nazista.
Il partito di Hitler, col suo progetto di rifondazione della germanità e di affermazione della superiorità della razza nordico-ariana, riuscì ad intercettare il loro consenso, rappresentando il transfert di una rivincita anche ideale di una generazione, il sogno di un invincibile Grande Reich millenario.
La storia divenne così la ragione legittimatrice di una «scienza combattente», di un corpo elitario di intellettuali che, rileva Christian Ingrao, mobilitò a partire dal 1939 il razzismo e l’antiebraismo nella giustificazione della guerra e nella produzione dell’immagine del nemico e in molti suoi elementi non ebbe il timore di sporcarsi le mani nel genocidio degli ebrei, partecipando in prima persona agli eccidi di massa, prima nell’Est europeo e poi anche nel Reich.
La maggior parte degli intellettuali SS sopravvisse all’apocalisse  del 1945, subendo molto spesso duri processi, in qualche caso il patibolo e di frequente il carcere.
La parabola degli intellettuali italiani dell’epoca presenta alcuni punti in comune e parecchie divergenze con i loro coetanei d’oltralpe. Anche il consenso degli intellettuali italiani al fascismo trovò, almeno in parte, le sue radici nella prima guerra mondiale, nella delusione conseguente alla cosiddetta vittoria mutilata e nelle ambizioni di costruire un’Italia nuova e potente, erede della Roma imperiale, protagonista in Europa e nel Mediterraneo. Il partito fascista di Benito Mussolini, tuttavia, all’inizio non fu antisemita, anzi molti ebrei militarono nelle sue fila, anche con incarichi di rilievo. La svolta razzista e antiebraica, che negli anni Venti coinvolgeva solo una minoranza di uomini di cultura, prese corpo a seguito della conquista dell’Etiopia.
Giornalisti, artisti e scrittori parteciparono attivamente all’intensa campagna di propaganda antisemita orchestrata dal regime tra il 1937 e il 1938 e dopo l’emanazione delle leggi razziali, avvenuta nell’autunno del 1938, per oltre sei anni intellettuali, docenti universitari, magistrati, avvocati e funzionari di basso e di alto livello prestarono la propria opera al servizio della persecuzione. Un bel libro appena uscito, «Baroni di razza» di Barbara Raggi (Editori Riuniti, pp. 216, euro 22,90), spiega, come recita il sottotitolo, «come l’Università del dopoguerra ha riabilitato gli esecutori delle leggi razziali». Rimasero tutti (o quasi) al loro posto, perfino Nicola Pende, firmatario del famigerato Manifesto della Razza. L’epurazione annunciata dal nuovo Stato democratico non ci fu e l’apparato burocratico, culturale, amministrativo del fascismo “subentrò” a se stesso, in una sostanziale continuità.
I baroni del potere culturale, scientifico, professionale e universitario, che avevano fatto il bello e il cattivo tempo durante il Ventennio mussoliniano, scansarono le dure sentenze della Storia, transitando senza colpo ferire nella Repubblica. Così Gaetano Azzariti, che era stato presidente del Tribunale della Razza, divenne nel 1957 presidente della Corte Costituzionale. E a questo gioco, rivela lo studio di Barbara Raggi, si prestarono anche figure luminose dell’antifascismo, come Guido Calogero, che scrisse una lettera già nel 1944 per difendere Antonio Pagliaro, insigne linguista e glottologo, che aveva fatto parte del Consiglio superiore della demografia e della razza. Grazie a Calogero anche Pagliaro venne degnamente riabilitato nel 1946 e concluse la sua carriera col rango di professore emerito. Segno di un processo di defascistizzazione dell’Italia che fu largamente incompiuto, falsato, come scrive Pasquale Chessa nell’introduzione, dal peccato originale di «un algoritmo del perdono morale etico e politico”.

(Il Mattino, 9 dicembre 2012)



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