Le bande fasciste, le torture e il coraggio di chi sfidò la ferocia tedesca nel carcere romano di Regina Coeli durante l’occupazione nazi-fascista. di Assunta Borzacchiello
Pietro Koch, Mario Carità, Francesco Colombo: questi i nomi dei più brutali e feroci torturatori in divisa nera, capi delle famigerate bande che in nome della fedeltà al regime fascista, ormai travolto dagli eventi che seguirono alla drammatica seduta del Gran Consiglio del 25 luglio 1943, che sancendo di fatto la caduta del fascismo, perseguitarono, torturarono e uccisero migliaia di antifascisti, partigiani ed ebrei. Le prime bande “autonome” nacquero subito dopo l'armistizio dell'8 settembre ‘43 e prima che fosse costituita la Repubblica Sociale. Organizzate da vecchi esponenti dello squadrismo fascista, le bande si autonominavano forze di polizia arruolando elementi violenti e i peggiori criminali.
La prima banda si costituì a Roma già a metà settembre del 1943, denominata “Guardia Armata di Palazzo Braschi” o “Fascio romano”, era comandata da Guglielmo Pollastrini, ex ufficiale dei carabinieri, chiamato a dirigere la banda da Gino Bardi, commissario federale di Roma. Composta da 120 uomini divisi in dieci squadre, la banda fu fermata dalle stesse autorità fasciste quando fu chiaro che, invece di limitarsi ai normali compiti di polizia, dava il via a “iniziative controproducenti”, sequestrando beni, arrestando arbitrariamente e torturando i prigionieri. Persino i Tedeschi intimarono, inutilmente, di fermare la banda, che fu infine costretta a sospendere le attività il 26 novembre del '43, allorquando il questore di Roma fece irruzione nella sede della banda a Palazzo Braschi e vi trovò 24 prigionieri con i segni delle torture subite, una gran quantità di armi, tessuti e generi di lusso, frutto di sequestri. I componenti della banda furono arrestati, ma tornarono liberi poco dopo, con il divieto di continuare a operare, almeno ufficialmente. Nel 1947 Bardi, Pollastrini e altri 54 componenti della banda furono processati e condannati a pene molto pesanti.
A Firenze il milanese Mario Carità costituì il “Reparto Servizi Speciali”, che prenderà poi il nome di “Ufficio di polizia investigativa”, formato da 200 uomini che terrorizzavano la città arrestando partigiani, ebrei, renitenti alla leva e i soldati che disertavano l'esercito repubblicano. Di fronte all'avanzata alleata, la banda Carità rapinò 55 milioni alla Banca d'Italia, il tesoro della sinagoga, quadri e oggetti d'arte. Incalzati dall'esercito alleato, i componenti della banda Carità si dispersero. Carità, fuggito sui monti, fu ucciso dai soldati americani all'Alpe di Siusi. I restanti componenti della banda furono processati a Padova nel 1945 e subirono due condanne a morte, due ergastoli e due condanne a 30 anni di reclusione.
A Milano Francesco Colombo, già espulso dal partito fascista, nel 1943 organizzò la Legione Muti, raccogliendo circa 200 uomini tra “fascisti di provata onestà e di sicura fede” e detenuti nel carcere minorile, diventati il terrore della città per gli atti di crudeltà perpetrati ai danni della popolazione. Andato a vuoto il tentativo di sciogliere la banda da parte del federale fascista Aldo Resega, la Legione si trasformò, nel marzo 1944, in “Battaglione di forze armate di polizia” e si aggregò a un battaglione esterno del Piemonte, quindi venne riconosciuta da Mussolini come “Legione Autonoma Mobile”.
Furono i “mutini”, così erano chiamati gli appartenenti della banda, a organizzare il plotone di esecuzione per i 15 ostaggi uccisi a Piazzale Loreto il 14 agosto 1944, come rappresaglia per la morte di alcuni soldati tedeschi, uccisi da una bomba fatta esplodere dai partigiani.
Il 5 giugno 1945, alle ore 14.18, a Roma, nel Forte Bravetta, fu eseguita la condanna a morte del più crudele dei torturatori delle famigerate bande tra quelle qui descritte: Pietro Koch. La sua “carriera” fu rievocata nel corso del processo svoltosi a Roma nel giugno del 1945, davanti all'Alta Corte di Giustizia per le sanzioni contro il fascismo. Figlio di un tedesco e di un'italiana, era nato a Benevento nel 1918. Già tenente dei granatieri, in servizio a Livorno, all'epoca dell'armistizio si trasferì a Firenze, qui si iscrisse al partito fascista repubblicano ed entrò a far parte della banda Carità, quindi passò a Roma con la preziosa informazione che consentirà la cattura del generale Caracciolo, già comandante della quinta Armata, nella basilica di San Paolo fuori le mura. L'arresto del generale Caracciolo, con la violazione dell'extraterritorialità degli istituti dello Stato Vaticano, diede avvio all'attività della banda.
Koch entrava così nel giro delle gerarchie repubblichine che gli consentì di organizzare la squadra più sanguinaria di torturatori che agivano nell'ambito degli irriducibili del regime fascista, operando sotto il nome di “Reparto speciale di polizia”. Tra i personaggi famosi catturati dalla banda ci fu il regista Luchino Visconti, salvato poi grazie all'intercessione dell'attrice Maria Denis, amica di Koch.
Le basi dove operavano i circa sessanta seguaci di Koch erano collocate nella pensione Oltremare e nella pensione Jaccarino di via Romagna, nei cui sotterranei avvenivano gli interrogatori con le torture. Tra le imprese criminali di Koch, al processo l'accusa gli contestò la consegna di alcune persone al nazista Kappler per l'invio alle Fosse Ardeatine, e i mezzi terroristici con cui induceva i giovani a presentarsi alla chiamata alle armi del governo repubblicano fascista.
Tra i collaboratori del tenente vi era Armando Tela in veste di vicecomandante, due preti, don Pasquino Perfetti e padre Epaminonda Troya e un gruppo di donne attirate dai beni di lusso che ricevevano in cambio di delazioni ai danni di antifascisti. I prigionieri venivano rinchiusi in celle alte solo un metro e venti, completamente al buio, alimentati con pane ammuffito. Tra le innumerevoli torture inflitte ai condannati veniva utilizzata la corrente elettrica, fiammiferi accesi sotto le piante dei piedi, schiacciamento dei genitali, colpi ai reni con sacchetti di sabbia, l'ingestione di petrolio e di sale. Erano le “segretarie” a spogliare le vittime e a infierire sui corpi nudi. La banda Koch restò a Roma fino all'arrivo degli alleati, per poi risalire la penisola fino a stabilirsi a Milano, dove fu arrestato dal capo della Polizia Montagna e trasferito a San Vittore. Pochi giorni prima della Liberazione Koch fu liberato per evitare che cadesse nelle mani dei partigiani, con documenti falsi si trasferì a Firenze dove visse la storia d'amore con una ragazza di 16 anni, Tamara Cerri. Sarà proprio questa storia a tradirlo, infatti, quando gli giunse la notizia che la ragazza e sua madre erano state arrestate, per salvarle si presentò in Questura e rivelò la sua identità, in cambio della vita delle due donne. Trasferito a Roma per essere sottoposto a processo, fu quindi rinchiuso nel carcere di Regina Coeli dove trascorse gli ultimi giorni di vita scrivendo molte lettere, si confessò e mandò a chiamare un giornalista per concedere un'ultima intervista testamento. Si mise in posa di fronte al fotografo e pregò il giornalista di mandare una foto a sua madre, alla sua fidanzata e di un'altra foto disse «questa la potete mandare alla scuola di criminologia. Sta dalla parte di Ponte Garibaldi». Il cappellano che lo assistette fino al momento della fucilazione a Forte Bravetta scrisse che Koch «mostrò nelle ultime ore un vero ed intenso cordoglio per il male operato dichiarando che la sua morte era riparazione inadeguata». A Forte Bravetta il condannato fu fatto sedere su una sedia con le spalle rivolte al plotone di esecuzione composto da 16 agenti di P.S. al comando dell'Ufficiale di P.S. Merici Ottavio. A esecuzione avvenuta, il medico Spallone scrisse «previa osservazione del corpo del Koch Pietro constata e dichiara che lo stesso‚ morto per spappolamento cerebrale prodotto da colpi di arma da fuoco».
A Roma, gli uomini della Gestapo svolgevano gli interrogatori nell'edificio di via Tasso, dato in affitto dal principe Francesco Ruspoli all'Ambasciata germanica in Italia. Adibito in parte a caserma, ad alloggi per ufficiali e a depositi, per la restante parte si trasformò in spettrale luogo di detenzione e di interrogatori di antifascisti o di sospettati di svolgere attività antifascista. Gli interrogatori iniziavano con i pestaggi e si continuava con le bruciature delle sigarette, lo strappamento delle unghie, fratture ossee. Ridotti in condizioni pietose, feriti nel corpo e mortificati nello spirito, i prigionieri venivano rinchiusi in celle minuscolo e senza finestre, ammassati come bestie, in attesa della condanna o del trasferimento a Regina Coeli, nel famigerato terzo braccio, controllato dal comando tedesco, oppure al sesto braccio, riservato ai prigionieri politici a disposizione del governo fascista.
Negli anni immediatamente successivi alla guerra, diversi testimoni di quelle vicende raccontarono la propria esperienza di detenuti politici o di persone che, per vari motivi, ebbero a che fare con il carcere, spinti dal bisogno di far conoscere scene di vita vissuta, prima che il tempo ne cancellasse ogni ricordo. Pagina dopo pagina, si segue l'incalzare di quegli eventi vissuti dai protagonisti, sembra quasi di udire lo sbattere dei cancelli, il passo pesante delle SS che girano per il terzo braccio, i suoni gutturali del loro idioma ostile, le palpitazioni dei prigionieri che temono da un momento all'altro di essere prelevati per poi essere inviati nei campi di lavoro in Germania o per essere inviati alle cave Ardeatine, dove furono trucidati i cinquanta prigionieri i cui nominativi erano sulla famigerata lista del questore di Roma, Pietro Caruso.
Una emozionante pagina di storia vissuta in prima persona fu scritta da Amedeo Strazzera Perniciani, presidente della Commissione Visitatrice delle carceri e poi reggente della direzione del carcere di Regina Coeli, fino al 5 giugno 1944, giorno dell'ingresso degli alleati a Roma. L'8 settembre del 1943 fu reso noto l'armistizio, firmato due giorni prima a Cassibile, in Sicilia, che poneva fine al più tragico conflitto del Novecento, ma proprio nei mesi successivi all'armistizio: «il nazi-fascismo riprese il potere a Roma e cominciò quel periodo drammatico di arresti, di torture, di veri e propri assassinii che non trovano riscontro nella storia moderna», scriveva il generale Roberto Bencivenga nella prefazione al libro di Strazzera Perniciani “Umanità ed eroismo nella vita segreta di Regina Coeli”, pubblicato nel 1946. Il terzo e sesto braccio si riempirono di partigiani e antifascisti, come Alessandro Pertini, ma anche tanti nomi sconosciuti che, dopo la fine della guerra e della dittatura fascista, riprenderanno la loro vita senza onori e senza gloria, portando dentro di sè il ricordo e l'orgoglio di aver combattuto il regime dittatoriale e la violenza nazi-fascista.
Strazzera Perniciani racconta della difficile missione che gli era stata affidata nel gennaio 1942 dal Procuratore del Re Gabriele Volpe che lo nominò presidente della Commissione Visitatrice e di assistenza ai carcerati. Da quel giorno Strazzera varcò quotidianamente la soglia del carcere, svolgendo nel primo periodo un'attività puramente caritatevole, portando conforto ai carcerati e ai loro familiari, distribuendo pacchi viveri e parole di speranza. Dopo il 25 luglio del ‘43, che segna la caduta di Mussolini decisa nella seduta del Gran Consiglio, si instaura il governo Badoglio e approdano nel carcere gli esponenti della classe dirigente del governo fascista, gerarchi, prefetti, giornalisti. Dopo l'8 settembre Roma è occupata nuovamente dai nazi - fascisti e le celle di Regina Coeli si svuotano dei gerarchi fascisti per far posto a coloro che il fascismo lo combattono, tra le file del Partito d'Azione, del Partito Comunista, della Democrazia Cristiana, ma anche madri e padri di famiglia, preti (don Morosini, immortalato da Aldo Fabrizi nel film Roma città aperta, fu vittima della ferocia nazi - fascista, condannato a morte e fucilato pochi giorni prima che gli alleati entrassero in città), studenti, ebrei, operai e rampolli di famiglie aristocratiche che seppero trovare nell'idea della libertà la ragione comune per rischiare la propria vita e sperare nella libertà.
Il terzo e il sesto braccio di Regina Coeli si riempiono, mentre il presidente della Commissione Visitatrice ascolta i racconti di coloro che provengono dagli interrogatori condotti dai nazisti e dai fascisti, le storie coraggiose di coloro che hanno preso parte al Fronte di Liberazione Clandestino.
Tra tanti anonimi antifascisti che ha incontrato e aiutato, Strazzera Perniciani ricorda nomi celebri come Leone Ginzburg, “dottore in lettere”, arrestato il 20 novembre 1943, nella tipografia “Macta” in via Basento dove si pubblicava il foglio clandestino Italia libera. Insieme a Ginzburg furono tratti in arresto scrittori, redattori e operai appartenenti al Fronte Clandestino di Resistenza. Tutti gli arrestati erano stati condotti all'ufficio politico della Questura dove furono sottoposti a interrogatori con le solite modalità e infine inviati a Regina Coeli, al terzo braccio, dove restarono a disposizione dell'ufficio politico. Le mogli di Ginzburg e di Carlo Muscetta, arrestato anch'egli nella stessa tipografia, si rivolgono accorate a Strazzera Perniciani per affidargli la sorte dei due uomini. Il presidente promette che si occuperà di loro e si attiva per evitare che essi vengano prelevati e trasferiti in Germania. Leone Ginzburg, dal sesto braccio viene trasferito al terzo, a disposizione del comando tedesco. Di corporatura alta e robusta, appartenente all'esecutivo del Partito d'Azione, marito di Natalia, futura scrittrice e padre di tre bambine, Leone Ginzburg muore il 5 febbraio 1944, alle otto e mezza del mattino nell'infermeria di Regina Coeli per colicistite acuta e paralisi cardiaca, il giorno dopo la violazione dell'extra territorialità della basilica di San Paolo da parte del questore Pietro Caruso.
La moglie e le figlie di Leone Ginzburg non possono partecipare ai funerali perché ebree, Natalia, grazie all'interessamento della Commissione Visitatrice, riesce a vedere la salma che riceve gli onori e viene tumulata nel cimitero del Verano.
Strazzera Perniciani intanto ha intensificato i rapporti con il Fronte Clandestino di Resistenza. Il presidente Emilio Lussu gli chiede di portare notizie ai detenuti politici, di mantenere i contatti tra coloro che sono dietro le sbarre e i partigiani che lottano fuori, la rete è fondamentale per assicurare continuità alla lotta, per proteggere coloro che combattono per la libertà fuori e per salvare dalla deportazione o dalla morte chi è in carcere. Tra i detenuti che prendono aria nel cortile del carcere, nelle sue quotidiane visite Strazzera conosce Sandro Pertini, Stefano Siglienti, Giuseppe Saragat, che lo pregano di portare notizie alle loro famiglie e tranquillizarle. Strazzera, pur consapevole di correre gravissimi rischi personali, non si sottrae all'imperativo morale di curare i rapporti tra i detenuti e il mondo esterno.
Tra le pagine del libro di Strazzera Perniciani si scopre un carcere terribile, ma anche umano, che sfata molti luoghi comuni di chi vuole le autorità carcerarie dalla parte degli oppressori, causa di pregiudizi e isterie che portarono alla tragica fine di Ferdinando Carretta, il direttore di Regina Coeli, giunto a Roma dopo che un bombardamento aveva quasi distrutto il carcere di Civitavecchia. Carretta, vittima dell'isteria della folla che gli attribuì ingiustamente la responsabilità di collaborazionista nella scelta dei nomi dei prigionieri che furono inviati alle Fosse Ardeatine, fu linciato dalla folla durante il processo a Pietro Caruso, sottoposto a giudizio per avere violato l'extra territorialità della basilica di San Paolo, per avere consegnato ai tedeschi i prigionieri da inviare alle Fosse Ardeatine, per i rastrellamenti, gli interrogatori tramite tortura e altri crimini. Condananto a morte, verrà fucilato alla schiena al Forte Bravetta il 22 settembre 1944.
Strazzera Perniciani, durante la sua missione, fa appello alla generosità di Carretta, alle suore che lavorano nell'infermeria, ai medici del carcere, agli agenti di custodia che sfidano la feroce reazione nazi - fascista e lo agevolano nei suoi incontri con i politici. Spesso si ricorre a iniezioni che provocano febbri altissime per consentire a molti detenuti di trovare rifugio in infermeria e sfuggire così agli interrogatori o alla deportazione.
Finalmente il 4 giugno 1944, vigilia dell'ingresso degli Alleati nella Capitale, arriva l'ordine del C.L.N. di aprire le porte della prigione «e restituire alla libertà ed alla Patria i figli valorosi ed eroici, dopo lunghissimi mesi di pene inenarrabili». Con l'arrivo degli Americani Strazzera Perniciani viene nominato reggente del carcere e si trova nella situazione di fronteggiare nuove difficoltà. Dopo il primo sfollamento dovuto alla liberazione dei politici e alla fuga di molti detenuti comuni, Regina Coeli ricomincia ad affollarsi per l'arrivo di numerosi esponenti del passato regime, ma anche di persone arrestate perché trovate in possesso di generi vietati. I nuovi ingressi, ogni giorno, si aggiravano intorno alle duecento unità. Strazzera ancora una volta si attivò presso le autorità americane per sollecitare l'esame delle centinaia di fascicoli consentendo così la liberazione di circa ottocento detenuti.
La vita a Regina Coeli riprende, anche se con innumerevoli difficoltà: mancano i mezzi, il personale, i regolamenti sono espressione del governo dittatoriale, ma Strazzera Perniciani ha esaurito la sua missione, il 16 novembre 1944 lascia la reggenza della direzione di Regina Coeli. Nelle sue memorie Strazzera Perniciani, ormai esperto di questioni carcerarie, esprime alcune idee per una riforma carceraria che, anche a leggerle oggi, ci sembrano quanto mai attuali: «La soluzione del problema carcerario potrà, dunque, raggiungere il completo successo se si risolveranno le principali questioni connesse a tale problema: amministrazione carceraria, edilizia, trattamento dei detenuti, regime carcerario, assistenza materiale, morale, sanitaria e spirituale ai detenuti, formazione di un Corpo di Agenti di custodia intelligente, preparato, selezionato, adeguatamente retribuito, moralmente elevato. (...) Nel nuovo assetto democratico del Paese, trascurare questa importante questione sociale e giuridica significherebbe abdicare a quelle posizioni di civiltà, che ci competono per antichissima, nobile tradizione”.
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