Nell' annivesario del XXVIII aprile
Da un breve documento che vedrà la luce non appena i signori della libertà si saranno degnati di concedere la medesima anche a chi non la pensa come loro, in occasione dell’anniversario della liberazione (oh tragica ironia) stralciamo queste pagine. Le dedichiamo agli italiani perché le ricordino il giorno in cui saranno chiamati a decidere col loro voto delle sorti della nostra Italia
“” …..se la guerra fra l’Inghilterra e la Germania avesse invece continuato sviluppandosi in tutta la sua fatale pienezza, allora sarebbe sorto il problema della nostra impossibile neutralità, il conflitto ci avrebbe investiti e messo nella drammatica necessità di scegliere. La penisola italiana era una base d’operazione che nessuno dei due potenti contendenti avrebbe potuto trascurare. Coloro che parlano di perpetua neutralità sono degli illusi. Bisognava scegliere:_ allo stato dei fatti non si poteva scegliere come facemmo. In verità, se la guerra l’avessimo condotta con maggiore lealtà e intelligenza, avremmo potuto forse vincerla subito. L’attacco alla Russia fu un errore colossale, così come fu un errore colossale non chiudere il mediterraneo da Gibilterra a Suez. Poi venne la serie di tradimenti. Per molti fu, ritengo inscipienza più che malvagità. Ma i risultati non cambiano. Il mio torto in materia è di essermi fidato più di loro che di molti camerati che me li denunciavano da tempo come infidi ed incapaci. Ma non potevo credere che dei vecchi soldati volessero la rovina del loro paese solo per vendicarsi delle beghe che avevano magari avuto con un segretario di fascio. Non potevo credere che la loro capacità militare si fosse definitivamente fossilizzata, che nell’esercito tutto fosse vecchio e tarlato dal regolamento, ai cannoni alle scarpe. Erano quindici anni che il mago Badoglio guidava lo stato maggiore e ancora più che ai ministeri della guerra, della marina e dell’aereonautica si alternavano generali e ammiragli di provata (così almeno si diceva) capacità. Mezzi a disposizione ne avevano avuti, la produzione generale del nostro paese si era centuplicata:… e oggi credono di giustificarsi con la storiella delle interferenze e della scarsità dei mezzi. Ma questa è una scusa puerile: quanto i tedeschi hanno trovato nei nostri magazzini militari e civili è semplicemente sbalorditivo. Milioni di paia di scarpe, di metri di stoffa, tonnellate di lana, armi di ogni genere e di ogni tipo nuove e buonissime: eppure i nostri soldati erano laceri, senza scarpe e disarmati. E allora?””
Mussolini parlava raramente di questo delicato argomento; quando lo faceva era però con estrema chiarezza; parlava piano , qualche lunga pausa di tanto in tanto , pareva sottolineare all’interlocutore i periodi precedenti. Nei primi colloqui che ebbi con lui, lo ricordo magrissimo estremamente mutato dal Mussolini che avevo visto qualche volta al balcone di Palazzo Venezia o nelle molte cerimonie alle quali avevo assistito prima dello scoppio della guerra. L’ultima volta l’avevo visto nelle retrovie del fronte di Tepeleni….
“…Occorre far convergere sulla Valtellina , da ogni parte il maggior numero di uomini a disposizione….”
Poi restò qualche attimo silenzioso; si tolse gli occhiali, si passò lentamente la mano sugli occhi e aggiunse:
“ non so cosa possa accadere di ciascuno di noi nei prossimi giorni; vorrei poter dire a tutti che se dovessimo crollare è necessario che i superstiti quelli che in questo nostro fascismo hanno creduto e credono conservino il meglio delle nostre idee. Sono più che mai convinto che il liberalismo abbia fatto il suo tempo, ma bisogna aiutare il paese a non cadere nelle braccia del comunismo. Il comunismo, almeno come è concepito ora, è antisociale, esso è al servizio degli interessi di un grande impero che tenta di imporre il suo predominio in Europa e nel mondo. Per giungere a ciò che ha bisogno di frantumare in ogni paese le forze che ne costituiscono l’ossatura civile. Le conseguenze di un esperimento bolscevico in Italia sarebbero di gran lunga peggiori dei disastri provocati dalla guerra……..”
Borsani si allontanava accompagnato da due fedeli amici più avviliti e rattristati di lui. Nel cortile fatto improvvisamente muto, mi pareva di risentire col suono pesante dei suoi passi di cieco l’eco delle sue amare parole. Povero amico! Dopo pochi giorni doveva cadere trucidato sotto i colpi spietati di uomini italiani. Mentre brancolante lo trascinavano dal palazzo di giustizia, in cui l’avevano portato al momento dell’arresto, gridava: ” Perché mi volete ammazzare?” gli risposero con una sghignazzata e lo abbatterono come una bestia. Restò in mezzo ad una strada della sua patria cogli occhi spalancati, per la seconda volta spenti……
…sul furore popolare che secondo i propagandisti più accesi rese inevitabili le stragi che caratterizzarono le cosiddette giornate insurrezionali e quelle successive, non è male, in omaggio alla verità, soffermarsi un poco, anche se i dati che sto raccogliendo pazientemente sono ora tutt’ altro che completi e quindi in grado di lumeggiare in tutta la loro belluina crudezza i massacri compiuti dalla più immonda canaglia che la storia o meglio la cronaca nera della storia d’Italia ricordi.
I giorni veri e propri dell’insurrezione, se così si vuol chiamare l’occupazione nemica dell’Italia settentrionale, non videro stragi di sorta, ma solamente sporadici efferati episodi di crudeltà e di personali vendette.
Superate ormai, o sorprese sul posto dalle colonne avanzanti degli anglo-americani, alla maggior parte delle forze armate fasciste e repubblicane, non restò che consegnarsi direttamente a questi o ai Comitati di Liberazione locali; i quali si sbracciavano, e forse in gran parte sinceramente, a promettere piena ed incondizionata immunità per tutti, purchè fossero evitati ulteriori combattimenti e distruzioni.
La notizia della caduta di Milano, inaspettata ed improvvisa, aveva logicamente e giustamente fiaccato le ultime velleità di resistenza dei nostri. La maggior parte dei presidi si adunò per l’ultima volta, depose le armi e si disperse: alcuni accettarono di trattare coi partigiani, molti coi comitati di liberazione .
Le trattative furono spesso intonate ad una singolare cortesia. Solo i massimi dirigenti del partito e della guardia delle brigate nere furono, e non in tutti i casi, trattenuti: gli altri lasciati liberi di andare dove preferivano. A molte decine di migliaia di questi uomini furono rilasciati permessi, lasciapassare, visti di ogni genere.
Solo nelle zone isolate, dove non giunse l’eco degli avvenimenti di Milano, si ebbero resistenze degne di questo nome: la stessa cosa accadde per i presidi che le truppe partigiane ritennero di poter prendere d’assalto. Alla forza nessuno si arrese. Ci si arrese piuttosto alle promesse, agli appelli che spesso sembravano sinceri. Diversi reparti restarono in piedi indisturbati ancora per molti giorni, come ad esempio la “Tagliamento”, la “ Leonessa” e le altre forze ripieganti da Torino , che, insieme ad altri reparti del Piemonte (fra cui la “Cacciatori degli Appennini”) aspettarono nei pressi di Ivrea, senza che nessuno osasse attaccarli, l’arrivo delle truppe anglo-americane, alle quali si arresero. Non mancarono i presidi che resistettero ad oltranza al fuoco di agguerrite formazioni partigiane. È questo il caso di alcuni gruppi di combattimento della “Monterosa” , i quali, benchè circondati da ogni parte resistettero con disperato coraggio al nemico fino allo stremo delle forze. La federazione fascista di Aosta , attaccata e stretta d’assedio per due giorni, cedette soltanto allorchè fu proposto al federale di unirsi coi suoi uomini ai partigiani per andare a presidiare la frontiera francese minacciata dai senegalesi di De Gaulle. Ma più tardi , lungo il cammino, quegli uomini furono disarmati ed il comandante processato e condannato a morte. Gli scontri sanguinosi di quei giorni non furono molti, se si escludono codesti casi particolari e la lotta per Torino, che fu forse la più dura; aspri scontri si ebbero pure a Padova, dove i partigiani convinti ormai di aver terreno libero, uscirono troppo presto all’aperto. Rarissimi i casi di colonne tedesche ripieganti che, non volendo arrendersi spontaneamente, furono assaltate. Qualcosa del genere è segnalato nel Veneto, dove ordini in proposito erano stati emanati dagli inglesi alle forze partigiane, nel timore di una ulteriore resistenza germanica in quelle zone. Di Milano si è detto. Ma furono episodi: piccole isole nel quadro immane del crollo, determinato solo dalle bombe, dalle colonne di carri armati, dai saettanti gruppi delle jeep, dalla potenza inverosimile di un esercito che da molti mesi avanzava con la regolarità di un rullo che non ci era stato possibile arrestare. Per qualche giorno parve dunque che i partigiani non infierissero. Non mancarono episodi di riconciliazione: in un paese della provincia di Milano, a un reparto misto di uomini della Guardia e della Brigata nera, che resisteva da molte ore con ammirevole tenacia, i partigiani che l’attaccavano decisero alfine di inviare parlamentari: “ ora che tutto è finito , perché continuare ad ucciderci?” il fuoco cessò e quei ragazzi , quelli dell’una e dell’altra parte, si buttarono le braccia al collo. Scene di questo genere e simili furono più numerose di quanto generalmente si crede. Terminati i combattimenti, disarmate ormai le formazioni fasciste, che avevano resistito fino al crollo dell’ultima speranza, alcuni reparti di partigiani regolari si comportarono generalmente abbastanza bene. Ci furono reparti che dimostrarono una lealtà di combattenti di cui sarebbe ingiusto non dar loro atto.
I primi episodi di ferocia, gli eccidi in massa, la caccia all’uomo, i linciaggi avvennero più tardi. Non frutto di spontaneo furore popolare, ma di furore manovrato, artificioso, voluto con nera ferocia da alcuni autentici delinquenti e dai dirigenti del partito comunista e azionista, secondo le regole classiche della tecnica rivoluzionaria leninista, e lo spirito velenoso di alcuni vecchi ruderi gonfi di rancore.
Quando già molti si illudevano che in Italia si fosse almeno finito di morire, da Piazzale Loreto, una masnada di sconci becchini lanciò la parola d’ordine data dai membri estremisti del Comitato di Liberazione e del Comando Partigiano:UCCIDETE! E gli uomini e i partiti cosiddetti moderarti la sottoscrissero vigliaccamente. La parola, portata da agenti criminali, arrivò in ogni città, nei villaggi, in ogni borgo d’Italia: UCCIDETE!
Lo spettacolo della morte inebriò le menti sconvolte degli adolescenti cui si era insegnato essere virtù patriottica ammazzare. Nemmeno i tribunali del popolo, i quali condannarono e fecero uccidere centinaia e centinaia di persone al giorno in ogni città, con una celerità superiore alla più criminosa fantasia, bastarono all’ansia della loro ferocia scatenata.
Dalle case, dalle carceri isolatamente, a gruppi di cinque, di dieci, di cento per volta, la gente fu presa e massacrata. Non tutti erano fascisti; molti lo erano stati,; meno della metà lo erano veramente; alcuni non lo erano affatto. Ma i “ragazzi” avevano fretta di far numero, non potevano andare tanto per il sottile. I rancori personali, le basse vendette, la sete di rapina ebbero il sopravvento. Dal palazzo di Giustizia di Milano, dove erano stati ammassati gli arrestati che San Vittore non poteva contenere, in una notte sola furono portate fuori e uccise oltre trecento persone: e così continuò per molte notti. Seguirono le uccisioni dentro le stesse carceri: a Ferrara, a Carpi, a Padova, a Cesena fino alla strage di Schie, dove un gruppo di giovani assassini sparava
coi mitra per cinque minuti sopra oltre cento persone ammucchiate in una vasta cella. A Torino teatro di massacri che non hanno forse nulla da invidiare a quelli della stessa Milano, furono tra il resto trucidate oltre mille ausiliarie; decine di famiglie, comprese le donne ed i bambini, furono gettate dalle finestre dei palazzi. Molti fascisti finirono negli altiforni, insieme a numerosi capi reparto non fascisti. Il Po fu per molti giorni rosso di sangue e gonfio di cadaveri. Il federale Solaro fu impiccato, il suo cadavere trascinato per le vie della città. In un canalone presso la salita del Consiglio, tra il territorio delle provincie di Treviso e Vicenza, furono buttati non meno di duemilacinquecento uomini barbaramente uccisi. Alcuni avevano legata al collo una bottiglia contenente il nome scritto su di un foglietto di carta, altri nulla. Bologna con i suoi duemila trucidati dei primi giorni dette il là alle efferate numerosissime uccisioni dell‘ Emilia e della Romagna. Vercelli, Novara, Cuneo, Genova, Alessandria, Brescia, Varese, Savona, furono testimoni di scene selvagge; i morti si contarono a migliaia. Ogni villaggio, ogni borgo, dalla Toscana al Veneto, alla Lombardia, alla Liguria, al Piemonte, ebbe i suoi linciaggi e numerosi bestiali fatti di sangue. In un piccolo paese, credo della Val di Chiana, un “repubblichino” come riportarono le cronache dei giornali, fu bastonato a morte e gettato nel fiume; raccolto dai familiari e riportato a casa perché morisse almeno cristianamente, fu ripreso dai “patrioti” e ributtato nel fiume con una pietra al collo. A Thiene, tirati fuori dal carcere in cui erano stati rinchiusi da quindici giorni, una ventina di vecchi conducenti della brigata nera “capanni” di Forlì, furono massacrati a raffiche di mitra, a poca distanza dalle mogli e dai figliuoli che ne attendevano fiduciosi la scarcerazione. Al loro vecchio comandante che attendeva il suo turno, gridarono: “ non abbiate paura, mireremo bene” e caddero falciati. A Oderzo la compagnia anziani del battaglione “ Bologna” e venti uomini della brigata locale, cui si era all’atto del disarmo garantita salva la vita, dopo alcuni giorni di carcere, furono freddamente massacrati nelle sacre trincee del Piave. A Clusone un reparto di giovanissimi ufficiali della Guardia, spontaneamente disarmatosi dietro promessa della libertà, fu letteralmente maciullato pochi giorni dopo. I seicento adolescenti del battaglione bersaglieri “Mussolini” che avevano lottato per quindici mesi nella Venezia Giulia contro le orde di Tito, finirono nelle foibe, insieme a molti indomiti italiani di quella terra. A Mestre centinaia di persone furono mandate a morte da un tribunale del popolo presieduto da un vecchio ubriaco che si era buttato sulle spalle una coperta mò di toga. Diverse centinaia di migliaia di case furono rapinate e devastate. Nessuna lurida offesa fu risparmiata né ai morti né ai vivi. Quanti saranno i massacrati di quei giorni?
Ora che il popolo da segni di reazione, inorridito dalla spaventosa ondata di sangue che ha minacciato di sommergerlo, nessuno sembra volersi assumere la responsabilità del tragico e non facile bilancio. Si parla di trecentomila persone; di mille famiglie interamente distrutte, di settemila donne e di molti fanciulli assassinati. I rapporti riservati che arrivano dalle provincie sono paurosi. Ma il governo tace. Preferisce semmai continuare a parlare con discutibile buon gusto delle solite crudeltà nazifasciste. è chiaro che ora, molti se ne vorrebbero lavare le mani alla maniera di Pilato. Gli entusiasti del Vento del Nord, che non fa che una spaventosa bufera criminale, stanno rapidamente diminuendo. Dicono che i morti pesano. Ma più debbono pesare questi che furono spenti allorquando, cessata la resistenza, non esisteva più una sola ragione politica o di guerra che potesse minimamente giustificarlo. Ora alcune mani si tendono verso i sopravvissuti, alcune bocche, prima amare di fiele, sembrano atteggiarsi ad un sorriso.
Non so cosa pensino di ciò i fascisti, questi indomiti generosi italiani che non tradirono mai, ma che purtroppo furono spesso traditi. Io, per me, non stringerò quelle mani, e non potrò credere alla sincerità di quel sorriso. Vorrei poter dire a tutti i miei amici, ai giovani e ai vecchi camerati, che restino sempre spiritualmente uniti, che si vogliano bene soltanto fra di loro. E questo non per sognare macabre vendette.
L’Italia, lo so, non ha più bisogno di morti, ma neppure di uomini vivi che lecchino la mano che li ha crudelmente percossi.
Uniti per non cedere di sfinimento, per non piegare sotto la sferza atroce di una persecuzione che peraltro continua per non rinnegare, sotto l’ausilio angoscioso del bisogno, nell’illusione di mille promesse, le quali saranno magre realtà, le idee per le quali abbiamo lavorato, combattuto, sofferto e tutto sacrificato. Non vogliamo essere un elemento di disordine nella vita di questo nostro povero, dilaniato paese, né ora né mai. Ma gli altri italiani onesti che vogliono veramente che l’Italia risani le sue ferite e risorga , hanno il dovere di capire: possiamo collaborare, ma non possiamo perdonare nessuno; non possiamo defascistizzarci e dimenticare come i nuovi “amici” che ci sorridono da sinistra e da destra, vorrebbero, mentre sono in carcere molte decine di migliaia di nostri fratelli e le centinaia e centinaia di migliaia di madri, di vedove, di orfani dei trucidati vagano per il paese in preda alla più disperata miseria, e languono nelle casa rimasta nuda dove regna infinito il dolore.
Nessuno deve credere che noi si possa tradire la fede che fece forti e orgogliosi i morti davanti ai loro carnefici; che ha aiutato noi stessi a reggere fin qui e che deve aiutarci e ci aiuterà a custodire le idee che …….per i nostri figli, per i figli dei nostri figli, i soli uomini che avranno domani il diritto di giudicarci.