sabato 20 aprile 2013

PERTINI: IL PRIGIONIERO PRESIDENTE


MAI COME  IN QUESTO MOMENTO MI SEMBRA OPPORTUNO RICORDARE UN PRESIDENTE. UN PRESIDENTE CHE OGNI ITALIANO SI E' SENTITO ONORATO DI AVERE COME PROPRIO RAPPRESENTANTE NEL MONDO. A VOI MISERABILI CHE ANCORA NON TROVATE UN ACCORDO, IL SOLO PARAGONE CON LUI DOVREBBE SOTTERRARVI SOTTO METRI DI MERDA. 
QUESTO IL SUO MESSAGGIO AI GIOVANI





martedì 16 aprile 2013

REGINA COELI : QUEL FAMIGERATO TERZO BRACCIO

Le bande fasciste, le torture e il coraggio di chi sfidò la ferocia tedesca nel carcere romano di Regina Coeli durante l’occupazione nazi-fascista. di Assunta Borzacchiello 

Pietro Koch, Mario Carità, Francesco Colombo: questi i nomi dei più brutali e feroci torturatori in divisa nera, capi delle famigerate bande che in nome della fedeltà al regime fascista, ormai travolto dagli eventi che seguirono alla drammatica seduta del Gran Consiglio del 25 luglio 1943, che sancendo di fatto la caduta del fascismo, perseguitarono, torturarono e uccisero migliaia di antifascisti, partigiani ed ebrei. Le prime bande “autonome” nacquero subito dopo l'armistizio dell'8 settembre ‘43 e prima che fosse costituita la Repubblica Sociale. Organizzate da vecchi esponenti dello squadrismo fascista, le bande si autonominavano forze di polizia arruolando elementi violenti e i peggiori criminali. 
La prima banda si costituì a Roma già a metà settembre del 1943, denominata “Guardia Armata di Palazzo Braschi” o “Fascio romano”, era comandata da Guglielmo Pollastrini, ex ufficiale dei carabinieri, chiamato a dirigere la banda da Gino Bardi, commissario federale di Roma. Composta da 120 uomini divisi in dieci squadre, la banda fu fermata dalle stesse autorità fasciste quando fu chiaro che, invece di limitarsi ai normali compiti di polizia, dava il via a “iniziative controproducenti”, sequestrando beni, arrestando arbitrariamente e torturando i prigionieri. Persino i Tedeschi intimarono, inutilmente, di fermare la banda, che fu infine costretta a sospendere le attività il 26 novembre del '43, allorquando il questore di Roma fece irruzione nella sede della banda a Palazzo Braschi e vi trovò 24 prigionieri con i segni delle torture subite, una gran quantità di armi, tessuti e generi di lusso, frutto di sequestri. I componenti della banda furono arrestati, ma tornarono liberi poco dopo, con il divieto di continuare a operare, almeno ufficialmente. Nel 1947 Bardi, Pollastrini e altri 54 componenti della banda furono processati e condannati a pene molto pesanti. 
A Firenze il milanese Mario Carità costituì il “Reparto Servizi Speciali”, che prenderà poi il nome di “Ufficio di polizia investigativa”, formato da 200 uomini che terrorizzavano la città arrestando partigiani, ebrei, renitenti alla leva e i soldati che disertavano l'esercito repubblicano. Di fronte all'avanzata alleata, la banda Carità rapinò 55 milioni alla Banca d'Italia, il tesoro della sinagoga, quadri e oggetti d'arte. Incalzati dall'esercito alleato, i componenti della banda Carità si dispersero. Carità, fuggito sui monti, fu ucciso dai soldati americani all'Alpe di Siusi. I restanti componenti della banda furono processati a Padova nel 1945 e subirono due condanne a morte, due ergastoli e due condanne a 30 anni di reclusione. 
A Milano Francesco Colombo, già espulso dal partito fascista, nel 1943 organizzò la Legione Muti, raccogliendo circa 200 uomini tra “fascisti di provata onestà e di sicura fede” e detenuti nel carcere minorile, diventati il terrore della città per gli atti di crudeltà perpetrati ai danni della popolazione. Andato a vuoto il tentativo di sciogliere la banda da parte del federale fascista Aldo Resega, la Legione si trasformò, nel marzo 1944, in “Battaglione di forze armate di polizia” e si aggregò a un battaglione esterno del Piemonte, quindi venne riconosciuta da Mussolini come “Legione Autonoma Mobile”. 
Furono i “mutini”, così erano chiamati gli appartenenti della banda, a organizzare il plotone di esecuzione per i 15 ostaggi uccisi a Piazzale Loreto il 14 agosto 1944, come rappresaglia per la morte di alcuni soldati tedeschi, uccisi da una bomba fatta esplodere dai partigiani. 
Il 5 giugno 1945, alle ore 14.18, a Roma, nel Forte Bravetta, fu eseguita la condanna a morte del più crudele dei torturatori delle famigerate bande tra quelle qui descritte: Pietro Koch. La sua “carriera” fu rievocata nel corso del processo svoltosi a Roma nel giugno del 1945, davanti all'Alta Corte di Giustizia per le sanzioni contro il fascismo. Figlio di un tedesco e di un'italiana, era nato a Benevento nel 1918. Già tenente dei granatieri, in servizio a Livorno, all'epoca dell'armistizio si trasferì a Firenze, qui si iscrisse al partito fascista repubblicano ed entrò a far parte della banda Carità, quindi passò a Roma con la preziosa informazione che consentirà la cattura del generale Caracciolo, già comandante della quinta Armata, nella basilica di San Paolo fuori le mura. L'arresto del generale Caracciolo, con la violazione dell'extraterritorialità degli istituti dello Stato Vaticano, diede avvio all'attività della banda. 
Koch entrava così nel giro delle gerarchie repubblichine che gli consentì di organizzare la squadra più sanguinaria di torturatori che agivano nell'ambito degli irriducibili del regime fascista, operando sotto il nome di “Reparto speciale di polizia”. Tra i personaggi famosi catturati dalla banda ci fu il regista Luchino Visconti, salvato poi grazie all'intercessione dell'attrice Maria Denis, amica di Koch. 
 Le basi dove operavano i circa sessanta seguaci di Koch erano collocate nella pensione Oltremare e nella pensione Jaccarino di via Romagna, nei cui sotterranei avvenivano gli interrogatori con le torture. Tra le imprese criminali di Koch, al processo l'accusa gli contestò la consegna di alcune persone al nazista Kappler per l'invio alle Fosse Ardeatine, e i mezzi terroristici con cui induceva i giovani a presentarsi alla chiamata alle armi del governo repubblicano fascista. 
Tra i collaboratori del tenente vi era Armando Tela in veste di vicecomandante, due preti, don Pasquino Perfetti e padre Epaminonda Troya e un gruppo di donne attirate dai beni di lusso che ricevevano in cambio di delazioni ai danni di antifascisti. I prigionieri venivano rinchiusi in celle alte solo un metro e venti, completamente al buio, alimentati con pane ammuffito. Tra le innumerevoli torture inflitte ai condannati veniva utilizzata la corrente elettrica, fiammiferi accesi sotto le piante dei piedi, schiacciamento dei genitali, colpi ai reni con sacchetti di sabbia, l'ingestione di petrolio e di sale. Erano le “segretarie” a spogliare le vittime e a infierire sui corpi nudi. La banda Koch restò a Roma fino all'arrivo degli alleati, per poi risalire la penisola fino a stabilirsi a Milano, dove fu arrestato dal capo della Polizia Montagna e trasferito a San Vittore. Pochi giorni prima della Liberazione Koch fu liberato per evitare che cadesse nelle mani dei partigiani, con documenti falsi si trasferì a Firenze dove visse la storia d'amore con una ragazza di 16 anni, Tamara Cerri. Sarà proprio questa storia a tradirlo, infatti, quando gli giunse la notizia che la ragazza e sua madre erano state arrestate, per salvarle si presentò in Questura e rivelò la sua identità, in cambio della vita delle due donne. Trasferito a Roma per essere sottoposto a processo, fu quindi rinchiuso nel carcere di Regina Coeli dove trascorse gli ultimi giorni di vita scrivendo molte lettere, si confessò e mandò a chiamare un giornalista per concedere un'ultima intervista testamento. Si mise in posa di fronte al fotografo e pregò il giornalista di mandare una foto a sua madre, alla sua fidanzata e di un'altra foto disse «questa la potete mandare alla scuola di criminologia. Sta dalla parte di Ponte Garibaldi». Il cappellano che lo assistette fino al momento della fucilazione a Forte Bravetta scrisse che Koch «mostrò nelle ultime ore un vero ed intenso cordoglio per il male operato dichiarando che la sua morte era riparazione inadeguata». A Forte Bravetta il condannato fu fatto sedere su una sedia con le spalle rivolte al plotone di esecuzione composto da 16 agenti di P.S. al comando dell'Ufficiale di P.S. Merici Ottavio. A esecuzione avvenuta, il medico Spallone scrisse «previa osservazione del corpo del Koch Pietro constata e dichiara che lo stesso‚ morto per spappolamento cerebrale prodotto da colpi di arma da fuoco». 
A Roma, gli uomini della Gestapo svolgevano gli interrogatori nell'edificio di via Tasso, dato in affitto dal principe Francesco Ruspoli all'Ambasciata germanica in Italia. Adibito in parte a caserma, ad alloggi per ufficiali e a depositi, per la restante parte si trasformò in spettrale luogo di detenzione e di interrogatori di antifascisti o di sospettati di svolgere attività antifascista. Gli interrogatori iniziavano con i pestaggi e si continuava con le bruciature delle sigarette, lo strappamento delle unghie, fratture ossee. Ridotti in condizioni pietose, feriti nel corpo e mortificati nello spirito, i prigionieri venivano rinchiusi in celle minuscolo e senza finestre, ammassati come bestie, in attesa della condanna o del trasferimento a Regina Coeli, nel famigerato terzo braccio, controllato dal comando tedesco, oppure al sesto braccio, riservato ai prigionieri politici a disposizione del governo fascista. 
Negli anni immediatamente suc­cessivi alla guerra, diversi testimoni di quelle vicende raccontarono la propria esperienza di detenuti politici o di persone che, per vari motivi, ebbero a che fare con il carcere, spinti dal bisogno di far conoscere scene di vita vissuta, prima che il tempo ne cancellasse ogni ricordo. Pagina dopo pagina, si segue l'incalzare di quegli eventi vissuti dai protagonisti, sembra quasi di udire lo sbattere dei cancelli, il passo pesante delle SS che girano per il terzo braccio, i suoni gutturali del loro idioma ostile, le palpitazioni dei prigionieri che temono da un momento all'altro di essere prelevati per poi essere inviati nei campi di lavoro in Germania o per essere inviati alle cave Ardeatine, dove furono trucidati i cinquanta prigionieri i cui nominativi erano sulla famigerata lista del questore di Roma, Pietro Caruso. 
Una emozionante pagina di storia vissuta in prima persona fu scritta da Amedeo Strazzera Perniciani, presidente della Commissione Visitatrice delle carceri e poi reggente della direzione del carcere di Regina Coeli, fino al 5 giugno 1944, giorno dell'ingresso degli alleati a Roma. L'8 settembre del 1943 fu reso noto l'armistizio, firmato due giorni prima a Cassibile, in Sicilia, che poneva fine al più tragico conflitto del Novecento, ma proprio nei mesi successivi all'armistizio: «il nazi-fascismo riprese il potere a Roma e cominciò quel periodo drammatico di arresti, di torture, di veri e propri assassinii che non trovano riscontro nella storia moderna», scriveva il generale Roberto Bencivenga nella prefazione al libro di Strazzera Perniciani “Umanità ed eroismo nella vita segreta di Regina Coeli”, pubblicato nel 1946. Il terzo e sesto braccio si riempirono di partigiani e antifascisti, come Alessandro Pertini, ma anche tanti nomi sconosciuti che, dopo la fine della guerra e della dittatura fascista, riprenderanno la loro vita senza onori e senza gloria, portando dentro di sè il ricordo e l'orgoglio di aver combattuto il regime dittatoriale e la violenza nazi-fascista. 
Strazzera Perniciani racconta della difficile missione che gli era stata affidata nel gennaio 1942 dal Procuratore del Re Gabriele Volpe che lo nominò presidente della Commissione Visitatrice e di assistenza ai carcerati. Da quel giorno Strazzera varcò quotidianamente la soglia del carcere, svolgendo nel primo periodo un'attività puramente caritatevole, portando conforto ai carcerati e ai loro familiari, distribuendo pacchi viveri e parole di speranza. Dopo il 25 luglio del ‘43, che segna la caduta di Mussolini decisa nella seduta del Gran Consiglio, si instaura il governo Badoglio e approdano nel carcere gli esponenti della classe dirigente del governo fascista, gerarchi, prefetti, giornalisti. Dopo l'8 settembre Roma è occupata nuovamente dai nazi - fascisti e le celle di Regina Coeli si svuotano dei gerarchi fascisti per far posto a coloro che il fascismo lo combattono, tra le file del Partito d'Azione, del Partito Comunista, della Democrazia Cristiana, ma anche madri e padri di famiglia, preti (don Morosini, immortalato da Aldo Fabrizi nel film Roma città aperta, fu vittima della ferocia nazi - fascista, condannato a morte e fucilato pochi giorni prima che gli alleati entrassero in città), studenti, ebrei, operai e rampolli di famiglie aristocratiche che seppero trovare nell'idea della libertà la ragione comune per rischiare la propria vita e sperare nella libertà. 
Il terzo e il sesto braccio di Regina Coeli si riempiono, mentre il presidente della Commissione Visitatrice ascolta i racconti di coloro che provengono dagli interrogatori condotti dai nazisti e dai fascisti, le storie coraggiose di coloro che hanno preso parte al Fronte di Liberazione Clandestino. 
Tra tanti anonimi antifascisti che ha incontrato e aiutato, Strazzera Perniciani ricorda nomi celebri come Leone Ginzburg, “dottore in lettere”, arrestato il 20 novembre 1943, nella tipografia “Macta” in via Basento dove si pubblicava il foglio clandestino Italia libera. Insieme a Ginzburg furono tratti in arresto scrittori, redattori e operai appartenenti al Fronte Clandestino di Resistenza. Tutti gli arrestati erano stati condotti all'ufficio politico della Questura dove furono sottoposti a interrogatori con le solite modalità e infine inviati a Regina Coeli, al terzo braccio, dove restarono a disposizione dell'ufficio politico. Le mogli di Ginzburg e di Carlo Muscetta, arrestato anch'egli nella stessa tipografia, si rivolgono accorate a Strazzera Perniciani per affidargli la sorte dei due uomini. Il presidente promette che si occuperà di loro e si attiva per evitare che essi vengano prelevati e trasferiti in Germania. Leone Ginzburg, dal sesto braccio viene trasferito al terzo, a disposizione del comando tedesco. Di corporatura alta e robusta, appartenente all'esecutivo del Partito d'Azione, marito di Natalia, futura scrittrice e padre di tre bambine, Leone Ginzburg muore il 5 febbraio 1944, alle otto e mezza del mattino nell'infermeria di Regina Coeli per colicistite acuta e paralisi cardiaca, il giorno dopo la violazione dell'extra territorialità della basilica di San Paolo da parte del questore Pietro Caruso. 
La moglie e le figlie di Leone Ginzburg non possono partecipare ai funerali perché ebree, Natalia, grazie all'interessamento della Commissione Visitatrice, riesce a vedere la salma che riceve gli onori e viene tumulata nel cimitero del Verano. 
Strazzera Perniciani intanto ha intensificato i rapporti con il Fronte Clandestino di Resistenza. Il presidente Emilio Lussu gli chiede di portare notizie ai detenuti politici, di mantenere i contatti tra coloro che sono dietro le sbarre e i partigiani che lottano fuori, la rete è fondamentale per assicurare continuità alla lotta, per proteggere coloro che combattono per la libertà fuori e per salvare dalla deportazione o dalla morte chi è in carcere. Tra i detenuti che prendono aria nel cortile del carcere, nelle sue quotidiane visite Strazzera conosce Sandro Pertini, Stefano Siglienti, Giuseppe Saragat, che lo pregano di portare notizie alle loro famiglie e tranquillizarle. Strazzera, pur consapevole di correre gravissimi rischi personali, non si sottrae all'imperativo morale di curare i rapporti tra i detenuti e il mondo esterno. 
Tra le pagine del libro di Strazzera Perniciani si scopre un carcere terribile, ma anche umano, che sfata molti luoghi comuni di chi vuole le autorità carcerarie dalla parte degli oppressori, causa di pregiudizi e isterie che portarono alla tragica fine di Ferdinando Carretta, il direttore di Regina Coeli, giunto a Roma dopo che un bombardamento aveva quasi distrutto il carcere di Civitavecchia. Carretta, vittima dell'isteria della folla che gli attribuì ingiustamente la responsabilità di collaborazionista nella scelta dei nomi dei prigionieri che furono inviati alle Fosse Ardeatine, fu linciato dalla folla durante il processo a Pietro Caruso, sottoposto a giudizio per avere violato l'extra territorialità della basilica di San Paolo, per avere consegnato ai tedeschi i prigionieri da inviare alle Fosse Ardeatine, per i rastrellamenti, gli interrogatori tramite tortura e altri crimini. Condananto a morte, verrà fucilato alla schiena al Forte Bravetta il 22 settembre 1944. 
Strazzera Perniciani, durante la sua missione, fa appello alla generosità di Carretta, alle suore che lavorano nell'infermeria, ai medici del carcere, agli agenti di custodia che sfidano la feroce reazione nazi - fascista e lo agevolano nei suoi incontri con i politici. Spesso si ricorre a iniezioni che provocano febbri altissime per consentire a molti detenuti di trovare rifugio in infermeria e sfuggire così agli interrogatori o alla deportazione. 
Finalmente il 4 giugno 1944, vigilia dell'ingresso degli Alleati nella Capitale, arriva l'ordine del C.L.N. di aprire le porte della prigione «e restituire alla libertà ed alla Patria i figli valorosi ed eroici, dopo lunghissimi mesi di pene inenarrabili». Con l'arrivo degli Americani Strazzera Perniciani viene nominato reggente del carcere e si trova nella situazione di fronteggiare nuove difficoltà. Dopo il primo sfollamento dovuto alla liberazione dei politici e alla fuga di molti detenuti comuni, Regina Coeli ricomincia ad affollarsi per l'arrivo di numerosi esponenti del passato regime, ma anche di persone arrestate perché trovate in possesso di generi vietati. I nuovi ingressi, ogni giorno, si aggiravano intorno alle duecento unità. Strazzera ancora una volta si attivò presso le autorità americane per sollecitare l'esame delle centinaia di fascicoli consentendo così la liberazione di circa ottocento detenuti. 
La vita a Regina Coeli riprende, anche se con innumerevoli difficoltà: mancano i mezzi, il personale, i regolamenti sono espressione del governo dittatoriale, ma Strazzera Perniciani ha esaurito la sua missione, il 16 novembre 1944 lascia la reggenza della direzione di Regina Coeli. Nelle sue memorie Strazzera Perniciani, ormai esperto di questioni carcerarie, esprime alcune idee per una riforma carceraria che, anche a leggerle oggi, ci sembrano quanto mai attuali: «La soluzione del problema carcerario potrà, dunque, raggiungere il completo successo se si risolveranno le principali questioni connesse a tale problema: amministrazione carceraria, edilizia, trattamento dei detenuti, regime carcerario, assistenza materiale, morale, sanitaria e spirituale ai detenuti, formazione di un Corpo di Agenti di custodia intelligente, preparato, selezionato, adeguatamente retribuito, moralmente elevato. (...) Nel nuovo assetto democratico del Paese, trascurare questa importante questione sociale e giuridica significherebbe abdicare a quelle posizioni di civiltà, che ci competono per antichissima, nobile tradizione”.

domenica 14 aprile 2013

Luigi Pierantoni



Nato a Intra (oggi Verbania) il 2 dicembre 1905, trucidato alle Fosse Ardeatine il 24 marzo 1944, medico.
Tisiologo, membro del Partito d'Azione clandestino, il dottor Pierantoni (tenente della Croce Rossa Italiana), usava la sua casa-ambulatorio in piazza Leandro, nel quartiere Trieste a Roma, come base per l'attività politica. Il padre, Amedeo, era stato, nel 1921, tra i fondatori del Partito comunista d'Italia e nella casa dei Pierantoni si incontravano, così, resistenti azionisti e comunisti. Anche la moglie del medico, Lea, era a fianco del marito nella lotta contro gli occupanti tedeschi e i fascisti che li sostenevano. La giovane donna, impavida, nonostante fosse in attesa di un quarto figlio, trasportava armi e stampa clandestina, occultandola nel doppio fondo del passeggino del terzo figlio, Paolo. Il 7 febbraio 1944 il tenente Pierantoni fu arrestato, per delazione, mentre era in servizio nel presidio romano della CRI a Tor Fiorenza. Portato in una cella di via Tasso, superati gli abituali, pesanti interrogatori, fu trasferito nel III braccio del carcere di Regina Coeli, dove improvvisò una infermeria e si prodigò nell'attività di medico a favore dei detenuti. Stava appunto praticando un'iniezione a un malato, quando fu interrotto bruscamente da due agenti della "feld polizei" e trascinato, senza spiegazioni, alle Fosse Ardeatine. Luigi Pierantoni fu una delle prime vittime dell'atroce rappresaglia, tanto che quando le salme furono, nel dopoguerra, recuperate, a quella del medico antifascista, riportata tra le ultime in superficie, fu assegnato il numero 334. Quando si costituì l'associazione dei familiari dei martiri (ANFIM), proprio il padre di Pierantoni fu chiamato a presiederla. A Luigi Pierantoni è stata intitolata una via di Roma; portano il suo nome anche la caserma della CRI di Roma e l'ospedale di Forlì, che sorge in frazione Vecchiazzano. In una aiuola posta lungo un viale interno dell'ospedale, una colonna alta 2 metri riporta un'epigrafe sul medico e patriota antifascista. Anche sulla casa dove Pierantoni abitava a Roma, lapidi ricordano il medico e Raffaele Zicconi, altro martire delle Fosse Ardeatine. Le due lapidi sono state deturpate dai nostalgici del fascismo nella notte tra sabato 13 e domenica 14 settembre 2008. Tra le scritte: "Onore alla RSI" e "Compagni merde". Già l'anno prima, le lapidi che ricordano il sacrificio di Luigi Pierantoni e Raffaele Zicconi erano state ignobilmente deturpate.

“Umanità ed eroismo nel carcere segreto di Regina Coeli” di Amedeo Strazzera-Perniciani


Il libro “Umanità ed eroismo nel carcere segreto di Regina Coeli” di Amedeo Strazzera-Perniciani è una testimonianza degli anni della Liberazione vissuti nel penitenziario romano
di Assunta Borzacchiello
Vecchi libri, con le pagine ingiallite e rese fragili dal tempo, riportano alla memoria storie dimenticate, vite che hanno scritto la storia della Repubblica. In uno di questi libri è narrata la storia che vi racconto: “Umanità ed eroismo nella vita segreta di Regina Coeli”, di Amedeo Strazzera-Perniciani, stampato a Roma il 10 febbraio 1946 dall’Azienda Libraria Amato. All’interno la dedica autografa dell’Autore: “All’Amico e Confratello Gr. Uff. Paolo Silvio Migliori che con spirito patriottico ha collaborato assiduamente con la Commissione visitatrice per lenire pene e dolori dei detenuti politici - Marzo 46”.
Amedeo Strazzera-Perniciani, all’indomani della Liberazione di Roma, avvenuta nel giugno del 1945, in questo libro racconta la difficile missione che gli era stata affidata nel gennaio 1942 dal Procuratore del Re Gabriele Volpe nominandolo presidente della Commissione Visitatrice e di assistenza ai carcerati, attività svolta fino a giugno del 1944, giorno della Liberazione di Roma. Il suo scopo fu “strappare alla morte o alla deportazione (che era poi il primo passo verso la morte) i detenuti, cercando di farli evadere o almeno immobilizzandoli nei letti dell’infermeria e degli ospedali”, scriveva nella prefazione il generale Roberto Bencivenga, ricordando anche che “è doveroso dire, qui, pure della collaborazione, che in quest’opera, diedero i funzionari della polizia e delle carceri che presero subito posizione, dopo l’8 settembre, per la causa patriottica”. Già componente della Commissione Visitatrice, fino all’assunzione della carica di presidente, Strazzera-Perniciani svolse nel primo periodo un’attività puramente caritatevole, portando conforto ai carcerati e ai loro familiari, distribuendo pacchi di viveri e parole di speranza. Ma è con la firma dell’armistizio, l’8 settembre del ‘43, che segnò la fine della guerra, ma anche l’occupazione nazifascista di Roma, che l’attività di Strazzera-Perniciani assunse un ruolo fondamentale nella lotta di Liberazione. Dopo il 25 luglio del ‘43, data che decide la caduta di Mussolini decisa nella seduta del Gran Consiglio, si istituisce il governo Badoglio e approdano nel carcere gli esponenti della classe dirigente del governo fascista, gerarchi, prefetti, giornalisti. Dopo l’Armistizio dell’8 settembre Roma è occupata nuovamente dai nazifascisti e le celle di Regina Coeli si svuotano dei gerarchi per far posto a coloro che il fascismo lo combattono tra le file del Partito d’Azione, del Partito Comunista, della Democrazia Cristiana, ma anche madri e padri di famiglia, preti, studenti, ebrei, operai e rampolli di famiglie aristocratiche che seppero trovare nell’idea della libertà la ragione comune per rischiare la propria vita e lottare per la libertà.
Il presidente della Commissione Visitatrice ascolta i racconti di prigionieri che hanno preso parte al Fronte di Liberazione Clandestino e hanno subito gli interrogatori condotti dai nazisti e dai fascisti. A Roma gli uomini della Gestapo effettuavano gli interrogatori nell’edificio di via Tasso, dato in affitto dal principe Francesco Ruspoli all’Ambasciata germanica in Italia. Adibito in parte a caserma, ad alloggi per ufficiali e a depositi, si trasformò in spettrale luogo di detenzione e di interrogatori di antifascisti o di sospettati di svolgere attività antifascista. Gli interrogatori iniziavano con i pestaggi e si continuava con le bruciature delle sigarette, lo strappamento delle unghie, fratture ossee. Ridotti in condizioni pietose, feriti nel corpo e mortificati nello spirito, i prigionieri venivano rinchiusi in celle minuscole e senza finestre, ammassati come bestie, in attesa della condanna o del trasferimento a Regina Coeli, nel famigerato terzo braccio, controllato dal comando tedesco, oppure al sesto braccio, riservato ai prigionieri politici a disposizione del governo fascista. Strazzera-Perniciani strinse rapporti con Emilio Lussu, capo del Partito d’Azione e rappresentante del Fronte Clandestino di Liberazione che gli chiese di portare notizie ai detenuti politici, di mantenere i contatti tra i prigionieri e i partigiani che lottano fuori. La rete è fondamentale per assicurare continuità alla lotta, per proteggere coloro che combattono per la libertà fuori e per salvare dalla deportazione o dalla morte chi è in carcere. Con il generale Roberto Bencivenga, capo dei gruppi militari clandestini di Roma e con i capi di altri partiti, si decise di mettere in atto ogni mezzo per sottrarre vittime ai tedeschi, sostenuto anche dall’incontro avuto da Strazzera-Perniciani con Ettore Casati, Primo Presidente della Corte Suprema di Cassazione, che, prima di partire per il Sud per partecipare al governo Badoglio, si era dichiarato, riporta l’autore “lieto di mettere la propria opera e quella della magistratura italiana al servizio della Patria, per il trionfo della giustizia e della libertà”. Nel frattempo Strazzera-Perniciani intensificò i contatti con le autorità amministrative e giudiziarie. Ad esempio, il commissario capo di P.S. addetto al gabinetto della questura di Roma, Alberto Ripandelli, favorì la richiesta di sollecitare i provvedimenti di scarcerazione di detenuti da lunga durata, non responsabili di reati, il commissario di P.S. Federico D’Amato, dirigente del carcere di S. Gregorio al Celio, segnalava invece l’entrata in carcere dei detenuti politici riferendo loro, su indicazioni dello stesso Perniciani, il comportamento da tenere durante gli interrogatori. Tra i detenuti che prendono aria nel cortile del carcere, nelle sue quotidiane visite a Regina Coeli, Strazzera-Perniciani conosce Sandro Pertini, Stefano Siglienti, Giuseppe Saragat, che lo pregano di portare notizie alle loro famiglie e tranquillizzarle. Pertini e Saragat erano stati arrestati il 18 ottobre 1943 dalla polizia fascista, incriminati di attività antifascista su vasta scala in Italia e all’estero. Condotti a Regina Coeli, sono assegnati prima al sesto braccio, quello dei comuni e poi al terzo, dove sono imprigionati i politici sotto la sorveglianza della polizia tedesca. Strazzera-Perniciani li incontra il 10 dicembre, durante l’ora d’aria; qui incontra anche Leone Ginzburg “dottore in lettere”, di corporatura alta e robusta, appartenente all’esecutivo del Partito d’Azione, marito di Natalia, e padre di tre bambine e Carlo Muscetta, critico letterario, arrestati il 20 novembre 1943, nella tipografia “Macta” in via Basento dove si pubblicava il foglio clandestino “Italia libera”. Insieme a Ginzburg furono tratti in arresto scrittori, redattori e operai appartenenti al Fronte Clandestino di Resistenza. Tutti gli arrestati erano stati condotti all’ufficio politico della Questura dove furono sottoposti a interrogatori con le solite modalità e infine inviati a Regina Coeli, al sesto braccio, dove restarono a disposizione dell’ufficio politico. Trasferiti al terzo braccio, appaiono preoccupati per la loro sorte. Strazzera-Perniciani dà loro indicazioni per fingersi malati e ottenere il momentaneo trasferimento in infermeria. Pur consapevole di correre gravissimi rischi personali, non si sottrae all’imperativo morale di curare i rapporti tra i detenuti e il mondo esterno. Spesso suggerisce di ricorrere a iniezioni che provocano febbri altissime per consentire a molti detenuti di trovare rifugio in infermeria e sfuggire così agli interrogatori o alla deportazione. Le mogli di Leone Ginzburg e di Carlo Muscetta, Natalia e Lucia, si rivolgono accorate a Strazzera-Perniciani per affidargli la sorte dei due uomini. Il presidente promette che si occuperà di loro e si attiva per evitare che essi vengano prelevati e trasferiti in Germania. Leone Ginzburg morirà il 5 febbraio 1944, alle otto e mezza del mattino, nell’infermeria di Regina Coeli per colicistite acuta e paralisi cardiaca, il giorno dopo la violazione dell’extra territorialità della basilica di San Paolo da parte del questore Pietro Caruso. La moglie e le figlie di Leone Ginzburg non possono partecipare ai funerali perché ebree. Natalia, grazie all’interessamento della Commissione Visitatrice, riesce a vedere la salma che riceve gli onori e viene tumulata nel cimitero del Verano.
Tra le pagine del libro di Strazzera-Perniciani si scopre un carcere terribile, ma anche umano, che sfata molti luoghi comuni di chi vuole le autorità carcerarie dalla parte degli oppressori, causa di pregiudizi e isterie che portarono alla tragica fine di Ferdinando Carretta, il direttore di Regina Coeli, giunto a Roma dopo che un bombardamento aveva quasi distrutto il carcere di Civitavecchia. Strazzera-Perniciani, durante la sua missione, fa appello alla generosità di Carretta, alle suore che lavorano nell’infermeria, ai medici del carcere, agli agenti di custodia che sfidano la feroce reazione nazifascista e lo agevolano nei suoi incontri con i politici. Carretta, che Strazzera-Perniciani ricorda per il coraggio con cui aveva aderito alla richiesta di stabilire contatti e per segnalare detenuti politici da assistere e da agevolare durante la prigionia, aveva preso parte anche a una riunione insieme ad Emilio Lussu per preparare la scarcerazione di tutti i detenuti politici di Regina Coeli, appena si fosse presentata la condizione favorevole. Donato Carretta, vittima dell’isteria della folla che gli attribuì ingiustamente la responsabilità di collaborazionista nella scelta dei nomi dei prigionieri che furono inviati alle Fosse Ardeatine, fu linciato dalla folla durante il processo a Pietro Caruso, sottoposto a giudizio per avere violato l’extra territorialità della basilica di San Paolo, per avere consegnato ai tedeschi i prigionieri da inviare alle Fosse Ardeatine, per i rastrellamenti, gli interrogatori tramite tortura e altri crimini. Condannato a morte, Caruso verrà fucilato alla schiena al Forte Bravetta il 22 settembre 1944.
I contatti di Strazzera-Perniciani si estendono anche al ministero della Giustizia, dove l’ispettore generale delle carceri addetto alle funzioni ispettive del carcere di Regina Coeli, Guido Marracino e Giuseppe Gibilisco, consigliere di Corte d’Appello, seguono ed assecondano con grande comprensione il movimento della Commissione Visitatrice. Un ruolo importante, ricorda l’autore, fu svolto dal personale di custodia del carcere, con a capo il comandante Sebastiano Masia e i sottocapi Cosimo Lintas, Sebastiano Rossi, Antonio Farina, e poi Londolina, Petrangeli, Mondelli e altri. E ancora, Strazzera-Perniciani ricorda l’opera delle suore addette alla vigilanza interna del carcere femminile delle Mantellate, il gruppo dei medici di Regina Coeli e delle Mantellate, i dottori Salvatore Scandurra, Paolo Majol, Lorenzo Lorè, Alfredo Monaco, Biagio Urso che collaborarono patriotticamente dando pareri favorevoli al passaggio dalle anguste celle del carcere nell’infermeria e anche nelle cliniche private di Roma.
Finalmente il 4 giugno 1944, vigilia dell’ingresso degli Alleati nella Capitale, arriva l’ordine del C.L.N. di aprire le porte della prigione “e restituire alla libertà ed alla Patria i figli valorosi ed eroici, dopo lunghissimi mesi di pene inenarrabili”. Con l’arrivo degli Americani Strazzera-Perniciani viene nominato reggente del carcere e si trova a fronteggiare nuove difficoltà. Dopo il primo sfollamento dovuto alla liberazione dei politici e alla fuga di molti detenuti comuni, Regina Coeli ricomincia ad affollarsi per l’arrivo di numerosi esponenti del passato regime, ma anche di persone arrestate perché trovate in possesso di generi vietati. I nuovi ingressi, ogni giorno, si aggirano intorno alle duecento unità. Strazzera ancora una volta si attiva presso le autorità americane per sollecitare l’esame delle centinaia di fascicoli consentendo così la liberazione di circa ottocento detenuti.
La vita a Regina Coeli riprende, anche se con innumerevoli difficoltà: mancano i mezzi, il personale, i regolamenti sono espressione del governo dittatoriale, ma Strazzera-Perniciani ha esaurito la sua missione, il 16 novembre 1944 lascia la reggenza della direzione di Regina Coeli. Nelle sue memorie, ormai esperto di questioni carcerarie, esprime alcune idee per una riforma carceraria: “La soluzione del problema carcerario potrà, dunque, raggiungere il completo successo se si risolveranno le principali questioni connesse a tale problema: amministrazione carceraria, edilizia, trattamento dei detenuti, regime carcerario, assistenza materiale, morale, sanitaria e spirituale ai detenuti, formazione di un Corpo di Agenti di custodia intelligente, preparato, selezionato, adeguatamente retribuito, moralmente elevato. (...) Ci auguriamo che, elevate le condizioni di vita e di carriera, possano affluire nel Corpo giovani selezionati, capaci di esercitare, nella continuità del contatto col detenuto, una funzione quasi pedagogica, creando nelle carceri un nuovo clima morale, un nuovo modo di sentire, di pensare, di agire. (…) Nel nuovo assetto democratico del Paese, trascurare questa importante questione sociale e giuridica significherebbe abdicare a quelle posizioni di civiltà, che ci competono per antichissima, nobile tradizione”.

venerdì 12 aprile 2013

Fosse Ardeatine. Vite perdute e ritrovate di Mario Avagliano


Fosse Ardeatine. Vite perdute e ritrovate

di Mario Avagliano

Roma 24 marzo 1944, quarto giorno di primavera. In una cava di pozzolana sulla via Ardeatina, i tedeschi uccidono 335 uomini con un colpo di pistola alla nuca. Sono prigionieri politici e partigiani di tutte le forze antifasciste, ebrei, detenuti comuni e ignari cittadini estranei alla Resistenza, sacrificati in proporzione di dieci a uno (ma nella fretta e nella confusione ne vengono uccisi cinque in più), in rappresaglia per l’attacco partigiano del giorno prima in via Rasella, costato la vita a 33 militari della compagnia dell’SS Polizei Regiment Bozen. È il più grande massacro compiuto dai nazisti in un’area metropolitana d’Europa e segnerà profondamente la storia e la memoria italiana del dopoguerra.
Nella ricorrenza del 50° anniversario della scomparsa di Attilio Ascarelli, il medico legale ebreo che dall’estate all’autunno del 1944 diresse le attività di esumazione e di identificazione delle salme della strage delle Fosse Ardeatine, esce un libro intitolato I Martiri Ardeatini. Carte inedite 1944-1945 (AM&D Edizioni, pp. 331, euro 30). Il volume, curato da Martino Contu, Mariano Cingolani e Cecilia Tasca, propone per la prima volta le schede biografiche delle vittime che furono redatte all’epoca dalla commissione, accompagnate da un interessante saggio sui più recenti sviluppi storiografici relativi all’eccidio, una preziosa bibliografia sull’argomento, un profilo del professor Ascarelli, e l’inventario del Fondo a lui intestato e  conservato presso l’Istituto di Medicina Legale dell’Università di Macerata.
In qualità di direttore della commissione medico-legale, Ascarelli raccolse la documentazione prodotta in quei mesi (comprensiva di fotografie delle operazioni di recupero delle salme, dei cadaveri e delle lettere ritrovate sui corpi delle vittime), più altri documenti che via via aggiunse negli anni successivi.
In uno di questi corposi fascicoli, sono contenute 291 schede di martiri (su un totale di 335), alcune più ampie, alcune telegrafiche, che vengono pubblicate in questo volume e ci rivelano particolari inediti di alcuni di loro.
Nulla si sapeva, ad esempio, del commerciante Secondo Bernardini, democristiano, che fu arrestato dalle SS a Pisoniano assieme alle moglie e, dopo la devastazione della casa, venne tradotto nel carcere di via Tasso, dove entrambi «subirono immane torture tra le quali hanno avuto asportazioni delle unghie e fustigazioni sotto le piante dei piedi». Il sottotenente Marcello Bucchi, invece, rinchiuso a Regina Coeli assieme a don Giuseppe Morosini, quando ebbe un colloquio con la madre e questa gli chiese cosa avesse fatto, rispose: “Mamma, la Patria è un ideale tanto grande”.
Le schede rappresentano, come scrive Claudio Procaccia nella prefazione, “un punto di partenza per la creazione di un dizionario biografico delle persone assassinate il 24 marzo 1944”. Se infatti il susseguirsi degli eventi tra il 23 e il 24 marzo è stato ampiamente ricostruito dalla storiografia, così come si è indagato a fondo sull’impronta che l’eccidio ha lasciato nella memoria del dopoguerra (vedi il libro di Alessandro Portelli “L’ordine è già stato eseguito”), poco invece si conosce, ad eccezione di alcuni personaggi più noti, delle vicende individuali delle vittime, di cui oggi resta traccia – e non per tutti – solo in alcune pubblicazioni locali o a carattere familiare, nelle cerimonie e nelle lapidi presenti a Roma e nelle città di origine.
La ricostruzione delle biografie civili e politiche dei martiri – alcuni dei quali ancora non sono stati identificati – sarebbe invece un’operazione di grande interesse storico, anche perché da essa emergerebbe un microcosmo altamente rappresentativo dell'intera storia italiana di quel tempo, in uno dei suoi snodi più drammatici e cruciali, tra fascismo, occupazione nazista, Resistenza e liberazione.
Alle Fosse Ardeatine furono uccisi italiani originari di ogni parte della penisola, dalla Lombardia alla Sicilia (più alcuni stranieri: un belga, un francese, un libico, un turco, un ungherese, tre ucraini e tre tedeschi). Le vittime erano militari e civili e appartenevano a tutti i ceti sociali, dagli aristocratici ai poveracci venuti in città per sbarcare il lunario e sopravvivere alla miseria.
Erano impiegati, commessi, commercianti, avvocati, professori, studenti, militari, venditori ambulanti, artigiani, contadini, pastori, operai. Di ogni fascia d’età, dagli anziani ai giovanissimi. Di ogni livello d’istruzione, dagli analfabeti ai grandi intellettuali, compresi alcuni colpevoli di reati comuni, che stavano scontando la loro pena in carcere. Quanto al credo religioso, vi era un sacerdote, don Pietro Pappagallo, e anche 75 ebrei (per la maggior parte di essi, i documenti pubblicati in questo volume sono le uniche testimonianze biografiche sino ad ora note). Tra i politici,infine, c’erano esponenti di tutte le forze antifasciste, compresi alcuni degli esponenti più autorevoli del Fronte militare clandestino di Roma, a partire dal loro capo, il colonnello Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo.
Il libro I Martiri Ardeatini, che sarà seguito a breve nel piano editoriale da altri due volumi tratti dal Fondo (uno sui verbali di esumazione della commissione medico-legale e un altro sulla figura del generale Simone Simoni, una delle vittime dell’eccidio), offre quindi la chiave e gli strumenti per riportare alla luce quelle vicende, “perché – come scrisse nel 1945 Ascarelli – si diffonda ovunque l’eco di tanta infamia e perché resti documentata una delle innumerevoli atrocità naziste che commosse la pubblica opinione del mondo civile!”.   

(Il Messaggero, 23 marzo 2013)

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